Anche l’arte è un atto politico

di Francesco Napolitano

“Noi non possiamo fregarci della politica… sono molti i giovani che ci domandano con angoscia e fede una direttiva, un grido entusiasta. Arte è legata alla politica e per quanto quest’ultima sia in ribasso in Italia la partita è tutt’altro che perduta”.

La velocità di pensiero orientata al futurismo di Filippo Tommaso Marinetti ci anticipa nell’intento di fornire un “Manifesto” che guidi i turisti/lettori del portale Mics lungo un percorso immaginario audio-guidato che si snodi tra le possibili connessioni fra arte e politica, giust’appunto prima della riapertura dei musei e delle primaverili giornate del FAI.

Aderendo ad una visione dadaista della realtà, improntata alla stravaganza e alla derisione di tutte le forme d’espressione artistiche convenzionali, apriamo la nostra mostra lasciando ai lettori/turisti la possibilità di scegliere tra due punti di partenza. Quello del viatico mecenatista che ha visto nei secoli le opere quali strumenti con cui il “potere politico” ha agito per persuadere le masse, acquisire e consolidare il consenso e quello del sentiero degli artisti che hanno dipinto su tela forme di ideali o di dissenso volte a provocare e far riflettere chi guarda su questioni politico-sociali.

Per comodità espositiva, suggerita dalla necessità di più agevoli collegamenti, entriamo in medias res nel percorso mecenatista, caratterizzato da esempi in cui il “potere politico” ha fornito sostegno economico e materiale, e non solo, ad attività artistico-culturali.

A proposito di Mecenate, ricordiamo che il suo circolo culturale è stato foraggiato da Ottaviano Augusto il quale, da propulsore della cultura, si è autocelebrato, affermando di aver lasciato una città di marmo, dopo aver trovato una città di mattoni. L’imperatore ha dato un volto alla Città Eterna innalzando ben 82 templi.

Nel corso dei secoli la fame di cultura e l’autocelebrazione sono stati il motore che ha spinto importanti famiglie, una su tutte i Medici, a dar lustro alle proprie casate.

Anche eminenti personalità hanno alimentato il proprio ego attraverso patrocini ed incarichi ad artisti. Uno degli esempi più celebri di intreccio tra arte e potere è stata la commissione degli affreschi della volta della Cappella Sistina da parte di Papa Giulio II a Michelangelo.

Mosso dall’ambizione di lasciare un’impronta indelebile nella storia, il Pontefice obbligò l’artista fiorentino a restaurare il vecchio soffitto, sviluppando con lo stesso un forte rapporto di amore e odio, se si pensa che il Santo Padre saliva quotidianamente sulle impalcature per controllare da vicino l’esecuzione dell’opera mentre Michelangelo dipingeva la volta disteso sulla schiena.

Caso più fulgido di arte quale strumento di glorificazione fu anche il ritratto con il quale Jacques Louis David rappresentò Napoleone trionfante mentre attraversava le Alpi, tanto da accrescere la reputazione eroica agli occhi del popolo.

L’imperatore venne raffigurato, malgrado le condizioni metereologiche proibitive, in posa trionfalistica mentre teneva le redini del suo maestoso cavallo bianco impennato e mentre volgeva il braccio teso come a guidare i suoi sulla strada della vittoria a conferma dell’intuizione del pittore tedesco Paul Klee per cui “l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”.  Sordo al monito di Picasso secondo cui “l’arte è una menzogna che ci consente di riconoscere la verità” l’imperatore infatti non poteva permettere che il quadro raffigurasse i fatti nella loro realtà e obbligò David a trasformare completamente la scena.

Un esempio di arte come strumento di potere e soprattutto come arma di delegittimazione e relegazione all’oblio si trova a Venezia nella Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale, ove tra i 76 ritratti dei Dogi ve ne è uno su cui il Tintoretto ha dipinto un drappo nero per celarne il volto. L’effige “Hic fuit locus Marini Faletri decapitati pro crimine proditionis” chiarisce che il ritratto apparteneva al Doge Marin Faliero, unico Doge giustiziato per alto tradimento, condannato dalla Serenissima ad una “damnatio memoriae” non solo politica, ma anche artistica.

Ulteriore esempio di arte braccio del potere è rinvenibile nell’architettura fascista: per dirla con Nietzsche, “una specie di oratoria della potenza per mezzo della forma”.

L’architettura razionalista, espressione di organizzazione ideologica e di colonizzazione del territorio, aveva il compito di lasciare un’impronta sull’Urbe (e non solo) attraverso la costruzione di imponenti edifici pubblici realizzati in pietra e abbelliti da forti caratterizzazioni scenografiche come pregiate statue e preziosi mosaici. Fra queste il Palazzo della Civiltà italiana ed il Foro Italico.

Megafono del regime, queste opere hanno agito da mezzi di convincimento e comunicazione di massa destinate ad esaltare ideali che, operando da filo conduttore, ci permettono di passare alla narrazione del percorso dei vari artisti che hanno utilizzato il colore come un mezzo per esercitare un influsso diretto sull’anima. Kandinsky docet.

Seguendo infatti il senso delle connessioni storiche, gli ideali del fascismo hanno più o meno origine nel futurismo che ha rispecchiato i bisogni contemporanei del culto della velocità, della tendenza al dominio ipnotico delle folle, della spinta al patriottismo, tipiche esaltazioni sentimentali passate nel fascismo.

Portatori di un messaggio mirante a rinnovare spiritualmente la vita politica e sociale ed opposti all’ideologia museale ed accademica propria della cultura erudita, i futuristi perseguono la visione della creazione ex novo di uno Stato il cui avvenire sarà votato solo alle macchine e al dinamismo.

Questa proiezione inarrestabile verso la modernità, visibile nella scomposizione di colori e forme e nell’introduzione di nuove armonie e prospettive, è presente nei lavori sprizzanti d’energia e tensione di Giacomo Balla. Un’artista quest’ultimo per il quale tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido ora nelle sculture raffiguranti Mussolini vittorioso ora nei quadri rappresentanti le bandiere all’Altare della Patria, testimonianza di una marcata inclinazione interventista.

Se come affermato da Pollock, la tecnica di pittura è solo un mezzo per gli artisti per arrivare ad una dichiarazione, volgendo lo sguardo a sinistra si può ammirare il socialismo umanitario di Pellizza da Volpedo, che nel suo Quarto Stato riproduce la palpitante fiumana umana della classe operaia in marcia per i propri diritti, a cui il colore restituisce dignità e vitalità.

Ambasciatore in pittura di battaglie politiche e sociali dei lavoratori, Renato Guttuso ha agito da cassa di risonanza delle occupazioni nel Sud, come dimostra il quadro “Occupazione delle terre incolte in Sicilia” e come prova il suo legame con la politica. Un legame talmente forte da aver voluto dipingere i funerali di Togliatti.

Arte come strumento di denuncia in Picasso che nella sua Guernica ha protestato contro la crudeltà e gli orrori della guerra fratricida spagnola rappresentata drammaticamente in una gamma di colori limitata. Soluzione che sottolinea l’assenza di vita nella deformazione di corpi e nelle urla disperate e laceranti delle figure sconvolte dal bombardamento.

Se la politica per lo scrittore francese Paul Valery è l’arte di impedire alla gente di impicciarsi di ciò che la riguarda, la street art invece irrompe sulla scena quale affresco cronicistico dei problemi della società e agisce da arma di guerriglia urbana per attirare l’attenzione ed accrescere la consapevolezza dei cittadini sui fenomeni da contrastare.

Celebre è la black art di Michael Basquiat, che combatte la piaga delle politiche razziali americane e condanna l’abuso di potere della polizia, colpevole in “The death of Michael Stewart” di aver ucciso, a seguito di pesanti pestaggi, lo stesso writer afroamericano colto in fragrante nella realizzazione di alcuni graffiti su un muro della Metro di First Avenue.

Il Muro artistico, tela espressiva di idee e strumento di provocazione nato per disturbare il comodo e far riflettere sui temi caldi della società, è lo scorcio con cui Bansky, writer dall’identità ancora celata, mette a nudo nel tessuto urbano le contraddizioni del nostro sistema.

Simboli della sua irriverenza sono, tra i tanti, il graffito della ragazzina palestinese che perquisisce un soldato israeliano, a denuncia dell’oppressione militare nella striscia di Gaza, e Steve Jobs rappresentato nei panni di un migrante, come esempio di critica della gestione migratoria nella Giungla di Calais da parte delle autorità francesi.

Arrivati alla fine dei due percorsi, l’esito comune che si palesa ai nostri occhi rivela un assunto quasi assoluto: l’opera d’arte, aldilà della superficie e della cornice, sprigiona una manifestazione dello spirito. Per questo non può non essere considerato un atto politico. Un messaggio chiaro specie nelle ore in cui si celebra la giornata mondiale dell’Arte.