Bonucci comunicatore: dallo sgabello di Oporto al trono di Londra
di Domenico Bonaventura
Sono pochi i Paesi al mondo che vivono le competizioni internazionali come le viviamo noi. Visceralmente, intensamente, passionalmente. Per noi il calcio non è “un gioco e basta”, come in troppi lo intendono. Non è uno svago. Il calcio è un rito pagano che fa da amplificatore di sentimenti, e da costruttore di senso comunitario.
Utilizzando volutamente un’iperbole, Catullo e il suo «odi et amo», o, se preferite, il «te voglio bene e t’odio» di Totò – trattasi naturalmente non di odio, ma di rivalità sportiva -, potrebbero venirci in soccorso per descrivere lo stato d’animo che tanti italiani hanno provato in queste settimane più che in altre occasioni.
Dopo l’Europeo, da cui siamo venuti fuori con la gloria dei vincitori, l’incipit del Carme 85 del «Liber» del poeta latinoo il verso di «Malafemmena» possono spiegare meglio il concetto intorno al quale sviluppare le mie considerazioni.Questi passi mi sono venuti in mente mentre, ancora senza voce, disorientato perché pervaso dall’emozione, osservavo i giocatori sul bus scoperto in giro per le strade della Capitalelunedì 12 luglio. In particolare, mentre osservavo Leonardo Bonucci.
Il vicecapitano di Juve e Nazionale, infatti, ha dimostrato di essere non soltanto un difensore di livello, ma anche un soggetto con competenze comunicative. Dentro il campo e fuori dal campo, Bonucci è un condottiero, uno di quelli che si mettono alla testa delle truppe ponendosi come riferimento. Come leader.
Esistono diversi tipi di leadership, secondo le definizioni che ne dà Max Weber: carismatico, legale-razionale e tradizionale. Bonucci è senz’altro un carismatico, e non lo nasconde. Fa della sfrontatezza il proprio tratto distintivo. Uno sfrontato sicuro di sé che mostra queste peculiarità nella prossemica, nel linguaggio verbale, non verbale edextra–verbale. Partiamo dalla fine. La conferenza stampa con il Ct Mancini, subito dopo la vittoria contro l’Inghilterra. Al tramonto di un Europeo occupato per un po’ di giorni dai commenti su Cristiano Ronaldo che sposta due bottiglie di Coca-Cola, Bonucci si siede e ne apre una, poi prende una birra e apre anche quella. Messaggio: non ho paura di essereconsiderato diverso dal mito.
Lo stesso messaggio, che però vuole marcare la differenza rispetto alle altre Nazionali, lo lancia quando viene pizzicato sul tema del BLM e sull’inginocchiamento. «Crediamo ci siano altri modi per combattere il razzismo», dice senza paura di sfuggire al politicamente corretto. In realtà ogni sua azione (di quelle fuori dal rettangolo), ogni sua intervista è improntata a un fine preciso. Bonucci è senza dubbio elemento divisivo e polarizzante. Lo è stato all’Europeo esattamente come lo è nel Campionato Italiano.
Come ogni leader – si prenda ad esempio Josè Mourinho, maestro di questa strategia -, si ciba dell’ostilità altrui. Come lui, Bonucci agisce sempre sul piano dello schema binario, cioè di quel «noi contro loro» che nel calcio può fare la differenza. E quell’ostilità la cerca, facendo di tutto perdeterminarla. Con dichiarazioni non sempre pesanti, ma a volte accompagnate da espressioni e ghigni provocatori, da una postura «che parla» e dall’utilizzo di una gestualità molto italiana e perciò assai eloquente. Non ci pare affatto casuale, subito dopo la vittoria dell’11 luglio, parlare a un metro da una telecamera del fatto che gli inglesi debbano «mangiare ancora tanta pastasciutta» prima di avere la meglio sull’Italia. Sapere che i destinatari del tuo messaggio ti stanno ascoltando e che il messaggio stesso verrà certamente tradotto è benzina per il motore del suo agire comunicativo. Così come non è casuale il ricorso alla metafora culinaria, un settore che all’estero è immediatamente identificativo della nostra cultura, spesso anche in senso dispregiativo.
Tuttavia, analizzando il suo personaggio, non possiamo sostenere che si tratti di quella «leadership personalizzata»di cui parlano Mazzoleni (1998) e Blondel e Thiébault(2010), naturalmente con esplicito riferimento all’ambito politico. Al centro, infatti, c’è il collettivo, non il singolo, benché quest’ultimo sia stato determinante nella corsa alla meta. Nel calcio risulta determinante l’aspetto motivazionale, il lato psicologico. Il leader carismatico è esattamente quello che riesce a farsi seguire dai propri compagni. Come scrive la Ventura (2019), «l’esistenza di un leader presuppone l’esistenza di seguaci». La capacità del “capobranco” è quella di accreditarsi agli occhi di chi lo segue, come è avvenuto quando ha avviato la trattativa con i funzionari di polizia per girare il centro città a bordo del bus scoperto. Capacità, però, vuol dire anche difficoltà: “Ifollowers gli riconoscono la qualità di mobilitazione di un individuo per il raggiungimento di obiettivi prefissati», ma sono sempre alla ricerca di prove che diano valore alla loro decisione di fidarsi del leader”.
Bonucci non ha tradito i suoi seguaci, si è posto alla testa dei suoi compagni di squadra. Lo ha fatto insieme al Ct Mancini e al suo grande amico Chiellini, quest’ultimo in verità più diplomatico nel modo di essere e di esprimersi (si pensi alla «scenetta del mentiroso»).
Quando c’è da ricordare Spinazzola, chi c’è accanto a Lorenzo Insigne? Quando c’è una coppa da portare in trionfo, chi fa partire i cori? Quando Donnarumma ferma il rigore di Saka (peraltro senza accorgersi che fosse la parata decisiva) e la vittoria diventa finalmente nostra, chi urla due volte alla telecamera «It’s coming to Rome»? Quando in conferenza stampa c’è da togliersi qualche sassolino, chi dice che «è stata una goduria vedere 58mila inglesi lasciare Wembley»? Quando sul bus scoperto c’è da motivare una folla in verità quasi in estasi, chi si veste da lancia–cori e non lascia mai il posto in prima fila? Quando c’è la possibilità diprendersi il saluto e l’abbraccio della gente, anche fuori dal Quirinale, chi rompe il protocollo per andare a cibarsi dell’entusiasmo dei tifosi, mostrando anche un sapiente utilizzo della prossemica? Leonardo Bonucci.
Se questi Europei ci hanno portato in dote una Coppa attesa da 53 anni, bisogna aggiungere che ci hanno mostrato anche tutte le caratteristiche di un calciatore che è sempre stato meglio avere nella tua squadra che in quella avversaria. D’altra parte, non è da tutti passare dallo sgabello di Oporto al Trono di Londra.