Cinema e politica
di Francesco Napolitano
Non ce ne vogliano i lettori. Se la giuria di Los Angeles qualche giorno fa è stata solerte nell’assegnare le statuette degli OSCAR ai film che maggiormente hanno segnato l’ultimo anno, non può dirsi altrettanto della giuria Mics, colpevoli le non poche difficoltà affrontate nella scelta di premiare i film che meglio di altri hanno raccontato la politica, nei suoi eventi chiave, nelle sue ideologie dominanti e nei suoi più importanti interpreti.
Si pensi che a causa della mole di pellicole e della interminabile operazione di montaggio, a detta di Francis Ford Coppola “una sorta di alchimia dei momenti delle emozioni umane messe in immagini e formanti”, abbiamo dovuto rinviare la premiazione dei film esteri a luglio in occasione della Biennale del Festival di Venezia.
Così i sottomarini russi in rotta di collisione con gli uomini del Presidente a stelle e strisce, nel frattempo impegnati anche in pericolose azioni di spionaggio ed in sanguinose crisi di coscienza vietnamite, gli attentati dinamitardi dell’Ira focosi non meno delle calde rivoluzioni sudamericane, solo per il momento devono cedere il passo al cinema nostrano, che, con un pizzico di orgoglio, ha fatto scuola nel mondo.
Malgrado la veemente protesta di Nanni Moretti, che si lamenta del fatto che proprio tutti si sentono in diritto e in dovere di parlare di cinema, apriamo la nostra rassegna cinematografica nazionale, compiendo un percorso a ritroso nel tempo a partire dalle biografie dei leader più recenti e più vicini al pubblico per poi arrivare al periodo, cinematograficamente parlando, del Neorealismo.
Il Re è Nudo! E’ questo il filo conduttore che unisce i ritratti cinematografici dei vari Andreotti, Craxi e Berlusconi, che sotto il cerone nascondono un concentrato di solitudine atavica e un bisogno enorme di compagnia e approvazione.
Indagare i meandri dell’umanità tramite l’uso totale della macchina cinematografica avvicina i leader all’uomo comune nella dimensione intima della miseria umana, ma non è ben chiaro se i vari Sorrentino e D’Amelio si siano fatti portatori di un messaggio di indulgenza teso a ridimensionare le responsabilità storiche del politico di turno o se i loro film mantengano un carattere di forte critica e denuncia.
La risposta sta al vero padrone della videocamera, l’inconscio del pubblico che assiste in un mix tra divertimento ed inquietudine alle battute taglienti del Divo Giulio, personificato da Toni Servillo, simbolo del potere che “ logora chi non ce l’ha”, alle prese con un insieme di squali affaristi e spinose trame da gestire al chiuso del suo inaccessibile e poco illuminato studio in via Lorenzo in Lucina, ove fra terribili emicranie e dialoghi serrati con Cossiga egli si rende capace anche di grandi atti di umanità.
Solitudine con cui Servillo è alle prese anche in “Loro”, ove questa espressione rappresenta il sottomondo composto da personaggi in cerca di fortuna e ragazze disinibite che adulano Silvio Berlusconi, leader alla ricerca perenne di consenso nella continua esibizione di imitazioni, barzellette e perfomance canore.
Come non citare a questo punto Bettino Craxi, rappresentato da Favino nella quotidianità dei suoi ultimi mesi di vita in esilio ad Hammamet, rincorso e perseguitato da chiacchierate relazioni extraconiugali e da fotografi invadenti in cerca di scoop persino sul letto di ospedale. Statista austero e acuto è ormai in disarmo e bisognoso di attenti auditori dei suoi aneddoti di vita politica e non.
Questa accennata “solitudine dei numeri primi” permette di far luce sulle dinamiche e sui meccanismi che regolano il potere e costituisce un modo di conoscere da vicino le vicende e gli intrighi della politica che abitano il pasoliniano “Cinema del Palazzo”, spesso distante dai propositi e dalle contestazioni della piazza.
Il richiamo alle rivendicazioni della piazza, a volte sfociate nella violenza, ci permette di ricollegarci al cinema che, desideroso di ricucire le ferite impresse nella memoria collettiva italiana, ha raccontato gli anni di piombo e le stragi di Stato.
“La meglio Gioventu’”, “La Prima Linea” e “Il Grande sogno” sono uno spaccato sugli ideali manifestati nei cortei studenteschi dalla generazione sessantottina, la cui animosità è confluita nella costituzione di gruppi extraparlamentari di estrema sinistra e talvolta -tragicamente- in frange terroristiche dedite ad una lotta armata responsabile di attentati sanguinari e rapimenti, tra tutti quello di Aldo Moro, magistralmente raccontato in “Buongiorno Notte” da Marco Bellocchio.
Le baruffe fraterne di Riccardo Scamarcio ed Elio Germano, in “Mio fratello è figlio unico”, l’uno operaio di sinistra, autore di occupazioni in fabbrica e sobillatore di manifestazioni e scioperi, l’altro militante sanguigno del Movimento Sociale italiano spesso coinvolto in risse e tafferugli, riportano alla memoria le continue zuffe di Robert De Niro e Gerard Depardieu in quel capolavoro e trattato di storia “ Novecento” del Maestro Bertolucci.
L’infinito incontro-scontro fra Olmo, bracciante agricolo aderente alla causa rivoluzionaria, e Alfredo, erede di ricchi possidenti terrieri, fa da sfondo ai conflitti socio-politici che hanno avuto luogo nelle campagne emiliane nella prima metà novecentesca, icasticamente descritti dal regista parmense, quale agente cosciente “cronistorico” di un’umanità tormentata da paure, illusa da speranze disattese e mossa da desideri di riscossa e liberazione.
Bertolucci, abile narratore di una realtà refrattaria a regole e convenzioni, acuto osservatore della natura umana, tanto da smascherare meschine spie fasciste ne “il Conformista” e giovani borghesi agiati che in “The Dreamers” giocano a fare i rivoluzionari, utilizza il cinema come mezzo per scoprire dettagli difficilmente individuabili a prima vista, attraverso delle trappole, tanto simili alle bugie oniriche del suo conterraneo Fellini.
Federico da Rimini, decano di un cinema, a suo dire “modalità più diretta per entrare in competizione con Dio”, ha ritratto la politica con la sua tipica visione sognante, illusoria e suggestiva che si fa beffe della realtà offrendo in Amarcord uno sguardo antropologico sull’italianità e sul fenomeno del fascismo nella quotidianità della provincia, descritto in toni farseschi e caricaturali con l’uso di scenografie esageratamente allegoriche e irriverenti.
Se Fellini aderisce al manifesto del regista francese Francois Truffaut, secondo il quale “l’arte del film può esistere solo e davvero attraverso un tradimento altamente organizzato della realtà”, i Neorealisti del dopoguerra al contrario, mossi dall’amore per la realtà, narrano trame ispirate alla situazione economica ed agli eventi reali che hanno colpito le disagiate classi lavoratrici nelle loro attività quotidiane.
I Neorealisti, fedeli alla vita di ogni giorno, hanno girato i loro film in spazi aperti bucolici o in città martoriate dalle devastazioni belliche, servendosi di attori non professionisti impoveriti dal conflitto e vogliosi di riscatto, impegnati con immensa dignità in ordinari sacrifici “eroici”.
Così Roberto Rossellini, probabilmente ispirato dal regista svedese Ingmar Bergman, secondo il quale “non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”, descrive in “Roma città aperta”, con accenti drammatici, la resistenza della popolazione contro l’occupazione tedesca di Roma, fronteggiata addirittura dai bambini che prendono parte alla lotta con azioni di sabotaggio.
Fra i Neorealisti che hanno proposto storie contemporanee ispirate a eventi reali della storia recente come non ricordare Francesco Rosi e Carlo Lizzani. Il primo in “Le mani sulla città” è stato un megafono di denuncia del potere speculativo del cemento, che negli anni del boom economico ha manovrato la politica con effetti catastrofici sulla società. Il secondo, fine testimone di un cinema quale arte di fatti e di uomini, ha documentato i segreti e i pensieri più intimi del Duce nei suoi ultimi istanti di vita in “Mussolini Ultimo Atto”.
In nome dell’intreccio fra cinema e politica, non tanto neorealisticamente quanto da devoti praticanti del fantarealismo felliniano, in “una giornata particolare”, “Todo modo” poniamo a chiusura della nostra analisi un arguto parallelismo del produttore francese Luc Besson:
“Il cinema è l’opposto della politica: si sa che è finzione, ma si può lo stesso raccontare la verità, a partire da una storia che tutti sanno essere finta. La politica al contrario pretende di dire la verità, ma poi alla fine è tutto cinema”.