Comunicazione e Superlega
di Domenico Bonaventura e Francesco Napolitano
“Se di tanto in tanto non hai degli insuccessi, significa che non stai facendo nulla di innovativo”.
Non siamo certi che Woody Allen avrebbe adottato lo stesso piglio propositivo dinanzi all’aborto della “rivoluzione aristocratica” scoppiata con la SuperLeague, piuttosto crediamo che il celebre regista newyorkese avrebbe reagito con il suo classico disincanto dal retrogusto cinico e ironico.
Se il tentativo di riformare il calcio attraverso la nascita di una competizione pressoché elitaria, quasi plutocratica, in quanto destinata a pochi esclusivi club, è durato il lasso di un breve temporale estivo, la luminosità di questo fulmine a ciel sereno “caduto solo per 48 ore”, è invece destinata a balenare nei cieli della narrazione calcistica ancora per tantissimo tempo.
È da qui che cerchiamo di ricostruire “l’affaire SuperLeague”, prima attraverso una cronistoria delle dichiarazioni e delle reazioni dei diversi attori del mondo calcistico allo scoppio della notizia, poi con un’analisi sulla gestione comunicativa della vicenda.
L’intenzione dei vari presidenti di ripensare il mondo del calcio in direzione di un modello meno inclusivo, più competitivo e calibrato sulle esigenze dei grandi club, emerge dalle parole di Silvio Berlusconi, patron del grande Milan, che da visionario precursore di tempi e intuizioni, già dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, immaginava una Superlega composta dai club più ricchi e vincenti.
Anticipatrici dell’imminente rivoluzione calcistica sono state le parole di Andrea Agnelli, che durante il Financial Times Business of Football Summit, tenutosi a Londra un anno fa, aveva indicato nel desiderio di spettacolari match da parte degli appassionati e nella protezione degli investimenti delle società maggiori le vie da perseguire, sulla falsariga dello svolgimento delle competizioni di Basket.
Con un occhio allo status quo dei grandi club, il presidente della Juve si è detto contrario al fatto che l’Atalanta, con una sola grande prestazione, abbia avuto accesso alla Champions League a discapito della Roma, club dalla storia più prestigiosa che, malgrado una sola stagione negativa, ha contribuito negli anni a tenere alto il ranking italiano.
Tornando al presente, il fulmine a ciel sereno che ha inaspettatamente agitato una tranquilla domenica pomeridiana di inizio primavera, ha prodotto una serie di reazioni, a partire dai comunicati dei “palazzi” delle istituzioni del calcio e delle federazioni nazionali, per finire alle dichiarazioni di chi il calcio lo vive dagli spalti, dalla panchina o direttamente dal campo. Tutto materiale che è necessario analizzare dalle diverse prospettive.
Il mondo istituzionale, mostrandosi risoluto e compatto nella condanna e nella negazione del diritto di cittadinanza alla Superlega, ha prospettato come ipotesi non improbabile l’esclusione dei club dissidenti dai campionati e dalle competizioni internazionali addirittura dalla stagione in corso.
Così, se la Fifa ha chiarito di rimanere fermamente a favore di un calcio che rifletta i principi di solidarietà, inclusività, integrità ed equa distribuzione finanziaria, il presidente dalla Uefa Ceferin è stato ancora più duro, arrivando addirittura a definire i club aderenti al progetto “sporca dozzina” e ad affermare che gli stessi club “hanno sputato in faccia a chi ama il calcio, pensando solo ai soldi”.
La maggior parte dei dirigenti dei club, su tutti Karl Heinz Rumenigge, CEO del Bayern Monaco, e la famiglia Friedkin, proprietaria della Roma, si è schierata a favore di un calcio aperto al merito e competitivo, opposto al modello chiuso e poco accessibile di una SuperLeague divisiva, invocando un calcio maggiormente razionale in cui le voci di spese, quali stipendi dei giocatori ed onorari per i consulenti, siano adeguate alle entrate.
Spostandoci sul manto verde, non possiamo omettere l’attacco frontale di Roberto De Zerbi, allenatore della sorpresa Sassuolo, che, primo fra i suoi colleghi, ha paragonato l’accaduto, nei contenuti e nelle modalità, ad un colpo di Stato, denunciando la lesione del diritto del più debole a sognare un futuro più bello di quello da cui proviene e arrivando addirittura a minacciare di non scendere in campo nella partita successiva.
Sulla stessa lunghezza d’onda, il coro unanime sollevatosi Oltremanica ha visto allenatori carismatici e giocatori di successo invocare un calcio volano di sogni che non si possono comprare, di vittorie impossibili e di imprese impensabili.
Sottolineiamo infatti che le reazioni più decise si sono registrate proprio nella Terra di Albione, luogo in cui il tifo è a tutti gli effetti una componente sociale, un’eredità familiare e dove, soprattutto, il “doppiofedismo” è una pratica bandita dai tifosi stessi.
Così mentre Klopp e Guardiola hanno reclamato la necessità di un calcio che sia rapporto fra fatica e risultato e che non tradisca la sua essenza dinanzi a vittorie “garantite”, i calciatori singolarmente o in modo collettivo, come quelli del Liverpool, hanno preso nettamente posizione contro la nuova competizione, giurando fedeltà e impegno assoluto verso la maglia ed i propri tifosi.
Anche la voce di questi ultimi ha giocato un ruolo fondamentale, se si pensa alle varie manifestazioni dei supporter, fra cui quelli del Chelsea, che fisicamente hanno bloccato l’accesso allo stadio protestando contro l’avidità del proprio club, aderente al progetto, e quelli del Liverpool, che hanno deciso di rimuovere i loro vessilli storici dalla leggendaria Kop.
Dall’altro lato della barricata, l’annuncio della SuperLega ha visto i maggiori rappresentanti dei club “fondatori e aderenti” spendersi in dichiarazioni tese a persuadere l’opinione pubblica della bontà del progetto, volto in primis ad aggiustare i conti in rosso e a riempire le casse piangenti.
Fra questi Joel Glazer, co-chairman del Manchester United e vicepresidente della Superlega, ha sostenuto: “Mettendo insieme i più grandi club e giocatori del mondo ad affrontarsi per tutta la stagione, la Superlega aprirà un nuovo capitolo per il calcio europeo assicurando una competizione e strutture di prim’ordine a livello mondiale, oltre a un accresciuto supporto finanziario per la piramide calcistica nel suo complesso”.
Andrea Agnelli e Florentino Perez, di concerto, facendo leva sulla fanbase e sul numero di trofei vinti dai club fondatori, hanno premuto sulla necessità di incentrare la maggior competizione europea in un percorso più ristretto, fatto di soli grandi match, in grado di alimentare il desiderio di calcio di appassionati e tifosi e di salvare un calcio che sta morendo per i troppi debiti e per la lontananza delle nuove generazioni, ove l’ancora di salvataggio sarebbe garantita dal contributo di ingresso promesso ai club da JP Morgan e dagli introiti generati dal torneo stesso.
Tuttavia, tanto tuonò che non piovve, se si considera che poco a poco quasi tutti i club aderenti hanno manifestato l’intenzione di sfilarsi dal progetto, sebbene con diverse exit strategy.
Mentre l’Arsenal in un comunicato ha chiesto espressamente scusa ai propri tifosi, l’Inter, come se nulla fosse accaduto, ha ritenuto il progetto non più d’interesse, ma l’ammissione di colpa più significativa è costituita dalle dimissioni di Ed Woodward, Ceo del Manchester United.
Nell’agone “superleghistico” non potevano non partecipare gli attori del mondo politico, abituati per deformazione professionale a dibattere in vexatae quaestiones quotidiane.
Se Boris Johnson si è dichiarato pronto a collaborare con le autorità del calcio perché il nuovo piano non si avveri, ricordando ai club coinvolti che prima di tutto devono rispondere ai loro tifosi e alla comunità calcistica in toto, il presidente francese Emmanuel Macron ha applaudito e sostenuto con vigore la posizione di tutti i club francesi che si sono rifiutati di partecipare al progetto SuperLeague.
Costantemente attento alle indicazioni europee, che per bocca del Vicepresidente della Commissione Margaritis Schoinas hanno difeso un modello di sport basato sui principi di universalità, diversità ed inclusione, il nostro premier Mario Draghi ha sottolineato l’esigenza di preservare le competizioni esistenti e la funzione sociale dello sport.
La summa delle dichiarazioni appena esaminate ci consente di adoperare un’analisi sulla gestione comunicativa della vicenda, che ha giocato un ruolo decisivo sul “fallimento” del piano SuperLega.
Abbiamo assistito ad una campagna di comunicazione spettacolare (a voler fare del sarcasmo), quasi atipica, che ha visto il primo comunicato stampa irrompere sulla scena allo scoccare della mezzanotte di domenica 18 aprile, malgrado le decise smentite dei protagonisti. I “cospiratori” hanno smentito e negato tale “macchinazione” fino all’ultimo, preferendo non fornire anticipazioni di sorta, nemmeno attraverso una velina, ostacolando così il passaggio di spifferi o voci di palazzo.
Paradossalmente, riteniamo che l’atto comunicativo del progetto abbia sortito un effetto contrario a quello voluto. E ciò a causa di diversi fattori.
Primo fra tutti, l’aver agito “col favore delle tenebre”, celebre recente espressione di matrice politica (Giuseppe Conte). Infatti, l’accennato “comunicato della mezzanotte” è stato seguito da una riunione decisiva tenutasi martedì 20 aprile alle ore 23. La domanda, come si diceva un tempo su Raitre con Antonio Lubrano, nasce spontanea. Perché sempre a tarda ora? Che tipo di messaggio si lascia a chi guarda un tg, a chi legge le agenzie, a chi fruisce le pagine dei siti?
In secondo luogo, la strategia ha colpito anche nelle uscite sulla stampa e nell’utilizzo di termini “inappropriati”. Malgrado la metà delle squadre avesse deciso di chiamarsi fuori dopo l’ultima riunione, in un’intervista del giorno successivo sulle pagine di Repubblica, firmata dal direttore Molinari, Andrea Agnelli ha seccamente dichiarato che il progetto sarebbe andato avanti lo stesso. Inoltre, definire l’accordo un “patto di sangue” crea un elemento lessicale il cui rimando mentale, che Saussure avrebbe definito significante, non ci pare molto limpido. Alla fine il cerchio si è chiuso con la notizia battuta poche ore dopo dalle agenzie (Reuters in primis) in merito alla resa del presidente della Juve.
Da ultimo, il clima asettico in cui il progetto è stato proposto.
Se i dati raccolti dall’Istituto Piepoli hanno mostrato come i supporter delle squadre certamente coinvolte e delle potenziali partecipatrici (come il Napoli e Roma) non fossero contrari a prescindere alla SuperLega, evidentemente i proponenti non sono stati capaci di creare un ponte, una “liason” con la “clientela”, che ha percepito il tutto quasi esclusivamente come un prodotto fonte di guadagno per le società.
Così crediamo che i promotori del progetto, nella comunicazione e soprattutto nella non comunicazione di alcuni aspetti, abbiano sottovalutato la portata e le conseguenze prodotte dal messaggio nelle reazioni del ricevente (supporter in primis), considerato quasi alla stregua di un “prosumer”.
È, infatti, mancata una puntuale narrazione delle ragioni che avrebbero dovuto portare i tifosi ad accettare, se non addirittura a desiderare, che le proprie squadre partecipassero alla nuova SuperLega.
Sembra un paradosso, ma nell’era dello “storytelling intensivo” quello che più è mancato è stato proprio il racconto. Non è un particolare da poco.