Draghi e il paradigma della comunicazione pragmatica ed essenziale

di Francesco Giorgino

Si racconta che nella prima riunione del Consiglio dei Ministri Mario Draghi, dopo aver ringraziato il Capo dello Stato che lo ha voluto a capo di un Esecutivo di unità nazionale, abbia invitato i responsabili dei dicasteri freschi di nomina (o comunque di riconferma) ad attenersi ad una regola che oserei definire di buon senso prima ancora che tecnica: comunicare ciò che viene realizzato e non ciò che si intende realizzare. Poche parole attribuite dai retroscena giornalistici all’ex capo della Bce le quali ci inducono, in previsione del discorso programmatico che Draghi farà mercoledì 17 febbraio al Senato in vista del voto di fiducia al suo governo, ad ipotizzare il modello comunicativo preferito dal Presidente del Consiglio. Un modello ispirato al pragmatismo e all’essenzialità.

Poniamoci anzitutto il problema di definire la differenza esistente tra la “pragmatica della comunicazione” (nel nostro caso di quella istituzionale) e la “comunicazione pragmatica”. Nel primo caso si fa riferimento all’uso contestuale del linguaggio in quanto “azione concreta”: l’intento è quello di valorizzare le modalità interpretative dei significati in ordine alla situazione contingente che rileva dal punto di vista politico, sociale e culturale. Nel secondo caso si fa riferimento, invece, alla ricerca della fattualità, a modalità espressive, tone of voice, linguaggio verbale, para-verbale (prosodia) ed extra-verbale (cinesica) non dispersive. Una comunicazione pragmatica è anzitutto una comunicazione radicata nella logica della dimostrabilità e delle evidenze empiriche: una costante -e giammai un’opzione- per chi proviene dal mondo accademico e per chi opera volendo separare il certo dall’incerto, il possibile dal probabile, le intenzioni dalle deliberazioni, la quantità dalla qualità. Pragmatico è ciò che si attiene ai fatti, a ciò che è realistico, a ciò che è concreto. Pragmatico è chi comprende che esagerare nell’annuncio di cose che si vorrebbe fare, ma che non si possono fare per tanti motivi (in passato è stata messa in evidenza, a tal proposito, la patologia della “annuncite”) significa sì sfruttare a proprio vantaggio l’effetto wow del marketing ovvero l’effetto dello stupore e della meraviglia che a breve termine produce effetti positivi in termini di posizionamento e di follewership, ma anche generare confusione nei cittadini che spesso non sono più in grado di distinguere i provvedimenti in vigore, da quelli ancora da approvare e da quelli frutto di desiderio. Dunque, pragmatismo.

Alla base di questa postura culturale (mi piace definirla così!) e di questa metodologia operativa, che fa coincidere la credibilità del soggetto con la sua reputazione e la sua capacità di accorciare le distanze tra “il dire e il fare” da un lato e “tra il fare e il dire” dall’altro, vi è una doppia consapevolezza. La prima è determinata dalle caratteristiche dell’artefice del processo comunicativo. Ogni premier è diverso dall’altro. Ogni governo è diverso dall’altro. La seconda è determinata, invece, dalla necessità di non sovrapporre il piano istituzionale a quello politico, sapendo che le istituzioni hanno un modo peculiare di gestire la propria presenza nella sfera pubblica. Presenza che non ha nulla a che fare con la propensione alla massimizzazione del consenso alla quale normalmente puntano partiti e leader politici in un orizzonte temporale sempre più ristretto.

L’autorevolezza di Mario Draghi, riconosciuta a livello internazionale e nazionale, si fonda su elementi che finiscono per intrecciarsi l’uno con l’altro e che determinano un profilo identitario ben strutturato: competenza multidisciplinare, lungimiranza, capacità di mediazione, propensione alla sintesi più che alla gestione dello scontro tesi-antitesi, senso politico, cultura istituzionale, visione sovrannazionale, sobrietà e riservatezza. Sarebbe un errore immaginare tutte queste categorie incompatibili con la ricerca, altresì, dell’engagement dei cittadini. Ricerca necessaria specie in un frangente storico nel quale l’elemento fiduciario si costruisce anzitutto intorno al valore della trasparenza delle istituzioni e specie a fronte di un contesto emergenziale dal punto di vista sanitario, economico, sociale, come ha ricordato qualche giorno fa Sergio Mattarella. Si può essere empatici anche senza aumentare il volume della comunicazione e senza accrescere a dismisura l’entità degli atti comunicativi, limitando per esempio l’interlocuzione con l’opinione pubblica ai soli provvedimenti adottati per enfatizzare la dimensione conativa (e quindi quella pragmatica) del combinato disposto misure/soluzioni, specie dopo aver percorso traiettorie dialogiche anche con quelle cognitive ed emozionali. Si innesca qui l’altro elemento utile alla costruzione di questo nuovo paradigma comunicazionale, ovvero l’essenzialità. Chiediamoci quando una comunicazione istituzionale è essenziale, dopo aver visto quando e se essa è pragmatica. Ecco alcuni possibili significati di questo sostantivo.

Filosoficamente l’essenzialità coincide con l’ontologia più che la fenomenologia, ma anche con i principi di necessità e di semplicità (che di certo non si sostanziano nella semplificazione e nella iper-semplificazione). Si identifica con la sostanzialità e la contestualità e con quel minimalismo che si traduce in eloqui asciutti e sintetici, che si appella all’uso di significanti verbali e non verbali in grado di ridurre la polisemicità e l’ambiguità semantica pur di restare vincolati al cuore delle situazioni da rappresentare, che asseconda strategie di generazione di senso senza produrre disinvolte divaricazioni tra il valore reale e il valore percepito.

A fronte del quadro qui rappresentato, si potrebbe essere indotti ad una conclusione, sia pur parziale e provvisoria, e cioè che una comunicazione istituzionale pragmatica ed essenziale finisca, comunque, per muoversi in controtendenza rispetto all’ecosistema digitale, alle logiche dei media e dei social network, all’interazione presente sul web tra emittenti e riceventi, al primato delle strategie di storytelling politico fondate sulla distinzione tra history (dati di realtà) e story (racconto). Ma attenzione, sarebbe un’analisi superficiale, poiché non terrebbe conto di una delle differenze più importanti tra il XX e il XXI secolo. Ciò che va inseguita, infatti, non è tanto l’equazione “maggiore quantità di informazioni uguale maggiore qualità della democrazia”, quanto l’equilibrio dinamico capace di crearsi tra la qualità della democrazia e la qualità dell’informazione/comunicazione. Un equilibrio che intercetta anche il grande tema della verità e il contrasto all’overload informativo. Il quale fiacca la capacità di discernimento dei riceventi, esponendo gli emittenti a rischi elevati sotto il profilo della distorsione, volontaria e involontaria che sia. Nel contempo va ribadito che la questione cruciale non è tanto quella del potenziale comunicativo a disposizione, che deve essere massimo anche in ambito istituzionale, quanto quella del suo uso effettivo. Un uso che deve considerare variabili contestuali e socio-culturali, fasi politiche e tratti caratteriali.

Di seguito si riporta il modello della comunicazione integrata di matrice circolare, il quale si sviluppa sulla base dei meeting point esistenti tra i diversi attori in campo.

Azzardo una previsione. È possibile che l’inevitabile mix tra comunicazione politica e comunicazione istituzionale dell’era Draghi si sviluppi intorno a tre piani: quello della comunicazione istituzionale del Presidente del Consiglio e dei Ministri tecnici voluti da Draghi; quello dei Ministri politici con una frequenza direttamente proporzionale al peso specifico nei partiti in Parlamento; quello dei leader delle formazioni politiche di maggioranza (tutte, tranne Fratelli d’Italia).

A conclusione si riporta l’elaborazione grafica del modello multidirezionale, più esplicativo del precedente e anche più capace di restituire la complessità della situazione. Infatti, in ballo c’è da un lato il problema dell’integrazione dei contenuti inerenti alle strategie comunicative possibili, dall’altro l’esigenza di non enfatizzare troppo, anche nell’interesse della omogeneità rappresentativa delle misure da intraprendere, le differenze esistenti tra la componente tecnica e quella politica del governo. La sfida è anche questa.

Sarebbe auspicabile che tutto ruotasse intorno alla figura del Presidente del Consiglio, il quale, anche per il tramite del Sottosegretario alla Presidenza, ha la responsabilità della gestione dei seguenti flussi: da e verso i ministri tecnici; da e verso i ministri politici; da e verso i leader politici, ma solo quando è necessario e solo per le questioni più urgenti e delicate. Quello che si deve evitare, se si vuole davvero aumentare l’efficacia, la chiarezza e la verità della comunicazione istituzionale, è che essa si fonda e confonda con la comunicazione politica, pur indispensabile in una Repubblica parlamentare come la nostra abituata a far leva sui partiti. Serve coerenza tra le diverse figure coinvolte nei processi di trasmissione dei contenuti. Serve coerenza anzitutto per evitare che si generi disorientamento tra i cittadini, specie in un contesto come quello pandemico, nel quale alle fragilità strutturali e ai problemi sanitari si aggiungono condizioni di enorme difficoltà economica, psicologica, relazionale. Tracciare il solco e rimanerci dentro è un obbligo. Per tutti. Anche da questo punto di vista può essere marcata una certa discontinuità con il passato. Recente e non.

 

(Credit foto di copertina: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri)