Hate speech: nell’era del Covid l’odio si concentra sulle donne

di Alessandra Staiano

Cosa hanno in comune Liliana Segre, Giorgia Meloni e Lucia Azzolina? Né l’età, né la storia accomunano la senatrice a vita sopravvissuta ad Auschwitz, la leader di Fratelli d’Italia e l’ex Ministra alla Pubblica Istruzione del Movimento Cinque Stelle. Eppure tutte e tre sono state, loro malgrado, in mesi recenti bersagliate da parole d’odio tanto forti da diventare “notizia”.

Liliana Segre fa da testimonial alla campagna vaccinale della Lombardia per gli over 80, la Regione diffonde una foto in cui è immortalata il 18 febbraio 2021 mentre scopre la spalla per ricevere il vaccino anti-Covid e tanto basta perché l’ultranovantenne venga sommersa (ancora una volta) di insulti antisemiti e minacce sui social. Passano pochi giorni e nel mirino delle offese finisce Giorgia Meloni. Stavolta gli epiteti volgari sono pronunciati da un docente universitario durante una trasmissione radiofonica, quindi tecnicamente off line, (per la cronaca lo storico Giovanni Gozzini professore all’Università di Siena intervistato da ControRadio). Ancora qualche settimana e il nervo scoperto delle parole d’odio viene mostrato da Lucia Azzolina che denuncia la scelta del sottosegretario Rossano Sasso, nominato in quota Lega all’Istruzione, di avvalersi come collaboratore di Pasquale Vespa che, quando a capo del Ministero c’era lei, l’aveva insultata e offesa sui social tanto da finire a processo per diffamazione aggravata.

In tutti e tre i casi le parole d’odio hanno portato a una sanzione o quantomeno la prefigurano: per le minacce a Segre sono indagati dalla Procura di Milano che contesta l’aggravante dell’odio razziale un 75enne residente in Sardegna e un 40enne viterbese; il docente che ha insultato Meloni in diretta radio è stato sospeso per tre mesi dalla sua Università con tanto di stipendio congelato e il Ministro all’Istruzione Bianchi ha revocato l’incarico al docente precario scelto dal sottosegretario. In tutti e tre i casi alle vittime delle parole d’odio sono arrivate attestati di solidarietà da parte delle forze politiche di ogni schieramento.

Ricordo queste tre circostanze perché testimoniano come intorno alle parole d’odio stia prendendo sempre più forma una disapprovazione sociale condivisa in ambito politico, accademico, professionale, dissipando così il senso di impunità che spesso caratterizza chi le pronuncia.

Il punto comune è anche e soprattutto un altro. Il fatto che tutte e tre le vittime dell’odio siano donne non è certo una coincidenza.

L’hate speech – letteralmente discorso d’odio – colpisce regolarmente le donne e nell’annus horribilis della pandemia le ha colpite più di ogni altra categoria pure solitamente attaccata e discriminata, come nel caso dei migranti o dei disabili. Lo ha rilevato la Mappa dell’Intolleranza giunta alla sua quinta edizione ed elaborata da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, in collaborazione con l’Università Statale di Milano, l’Università di Bari Aldo Moro, Sapienza – Università di Roma e IT’STIME dell’Università Cattolica di Milano.

Mediante strumenti di Social Network Analytics & Sentiment Analysis, fondati su algoritmi di intelligenza artificiale, i ricercatori hanno realizzato una mappatura estraendo e geolocalizzando 1.304.537 tweet raccolti da marzo a settembre 2020 e contenenti parole considerate sensibili, al fine di rilevare come e quanto sia diffusa l’intolleranza nei confronti di sei gruppi (donne, persone omosessuali, migranti, persone con disabilità, ebrei e musulmani) nel tentativo di comprendere il sentimento che anima le communities online, considerate indicative per il possibile anonimato degli utenti, con la conseguente idea di una maggiore “libertà d’espressione” e il livello di interattività che le caratterizza.

Confrontando i dati con la rilevazione del 2019 è emerso che il fenomeno dell’hate speech è diminuito considerevolmente nel complesso, con un calo significativo dei tweet negativi rispetto a quelli positivi, ma anche che si è concentrato in periodi temporali precisi e con un accanimento che sembra testimoniare un uso più professionale e organizzato dei social da parte degli odiatori seriali impegnati in vere e proprie campagne verso i soggetti da colpire. La categoria più odiata nel 2020 è risultata quelle delle donne (49,91%) seguita dagli ebrei (18,45%). L’anno precedente sul podio pure c’erano le donne (26,27%) ma in seconda posizione e dopo i migranti (32,74%).

Nel presentare i risultati della ricerca l’Osservatorio VOX ha sottolineato una peculiarità di questa nuova misoginia on line, molto probabilmente specchio di quanto si vive e percepisce anche off line. Accanto agli onnipresenti e ‘storici’ riferimenti sessisti e al bodyshaming sono emersi in modo significativo attacchi relativi alla professionalità e alle competenze delle donne, mai prima emersi con tanta evidenza. Il lavoro delle donne viene indicato dai ricercatori quale “co-fattore scatenante l’hate speech”. Il tutto è accaduto nel primo anno della pandemia in cui lo smart-working è entrato prepotentemente nelle vite di lavoratori e lavoratrici, finendo per pesare maggiormente sulle donne chiamate più spesso e in modo più gravoso a dover conciliare (ancora una volta) i tempi di lavoro e cura della famiglia, rimanendo sempre nelle mura domestiche.

Donne che lavorano, donne che fanno politica come quelle citate all’inizio di questo articolo, dunque, che finiscono nella rete dell’odio. Per rispondere alla domanda se non capiti la stessa cosa agli uomini (è sempre di questo periodo la notizia dei proiettili recapitati all’ex premier Matteo Renzi) viene in soccorso il concetto di intersezionalità, introdotto nel 1989 da Kimberlé W. Crenshaw, giurista e attivista statunitense per indicare “le conseguenze problematiche derivanti dalla tendenza di trattare razza e genere come categoria di esperienze e di analisi che si escludono reciprocamente”. L’odio, sottolinea Barbara Giovanna Bello (2020) non si muove a “comportamenti stagni, ma spesso incrocia, colpendole diverse categorie e motivazioni (nazionalità, colore della pelle, religione, etnia” ricordando in riferimento all’espressione intersezionalità che “l’immagine che ha ispirato questo neologismo è l’incrocio stradale (l’intersezione, appunto): in sintesi, se pensiamo a una persona situata al centro di un incrocio e ipotizziamo che il veicolo proveniente da ogni strada che vi converge sia una categoria dell’identità, allora si può desumere che gli incidenti (discriminazioni, oppressioni, discorsi d’odio) causati simultaneamente da più autovetture al centro dell’incrocio siano ‘qualitativamente diversi’ da quelli prodotti da un veicolo alla volta”. Ne consegue che dall’interazione tra più caratteristiche dell’identità derivano insulti specifici.

Ti odio perché sei donna, perché sei nera o perché sei una donna nera?”, è la domanda apparentemente provocatoria posta da Bello (2020). E tornando ai nostri casi viene da domandarsi se Segre venga insultata perché donna, perché ebrea o perché donna ebrea? Meloni e Azzolina perché donne, politiche o donne che fanno politica? La stessa domanda la suscita un’altra interessante ricerca, curata dall’associazione Gi.U.Li.A. (Giornaliste Unite Libere Autonome) in collaborazione sempre con l’Osservatorio VOX, culminata nel libro “Stai zitta giornalista!” di Silvia Garambois e Paola Rizzi che hanno raccolto le storie di molte professioniste dell’informazione, spesso con un curriculum importante come Giovanna Botteri, Angela Caponnetto e la direttrice dei giornali radio Rai Simona Sala, finite nel tritacarne dell’odio social, tanto da spingere qualcuna a scegliere di uscire dalle piattaforme che pure sono per loro un importante strumento di lavoro. In questo caso l’incrocio tra la misoginia e l’odio verso la categoria che colpisce anche i colleghi uomini va a incidere sulla libertà di informazione, sintomatica dello stato di salute di una democrazia, e può diventare un bavaglio.

L’hate speeching è un fenomeno complesso che apre diverse questioni sia sotto il profilo giuridico per l’individuazione delle condotte da sanzionare penalmente, ma anche e soprattutto sul piano delle azioni di contrasto preventivo in cui assume un ruolo centrale la media education, come evidenzia Federico Falloppa (2020) coordinatore della Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, insieme di soggetti impegnati a costruire e proporre contro-narrazioni, quali racconti alternativi che offrano nuovi punti di vista incentrati sull’inclusione. Sulla stessa lunghezza d’onda si muove il progetto “Parole Ostili” che, nato poco più di un anno fa, ha elaborato il “Manifesto della comunicazione non ostile” con dieci regole che sono principi di stile per rendere la rete un luogo sicuro e accogliente per tutti e lo ha declinato in diversi ambiti, dalla scuola allo sport.

Sullo sfondo resta la domanda sul perché del fenomeno. La risposta migliore, per chi scrive, resta quella che Cesare Pavese diede nel 1952 ne “Il mestiere di vivere”: “Si odia ciò che si teme, ciò quindi che si può essere, che si sente di essere un poco. Si odiano gli altri perché si odia se stessi”. Un’indicazione preziosa che mostra la strada per combattere l’odio nella conoscenza dell’altro e di sé. In una parola sola, nella “cultura”.