I rischi della “cancel culture”
di Francesco Napolitano
“Nessuno può essere punito per avere eretto una statua che secondo la legge del tempo in cui fu eretta non costituiva reato”.
La furia distruttrice di busti e statue propria dei cancellisti, autoproclamatisi Tribunale del presente pronto a categorizzare, attualizzare e processare il passato, si scontra con quanto disposto dall’articolo 2 del codice penale, ironicamente rielaborato per l’occasione e posto ad incipit della narrazione su Mics Luiss del fenomeno della cancel culture.
Nel linguaggio attuale cancel culture o call-out culture, indica quell’insieme di fenomeni e atteggiamenti di colpevolizzazione manifestatisi sui social e non solo, volti ad ostracizzare un personaggio pubblico o un’azienda, colpevoli di aver adottato un comportamento offensivo o politicamente scorretto.
Tale locuzione fa il suo ingresso a partire dal cosiddetto Black Twitter, comunità presente su Twitter composta per lo più da utenti afroamericani. Seguendo il principio dell’economia dell’attenzione per cui “quando privi qualcuno della tua attenzione lo stai privando di un sostentamento”, la suddetta comunità ha cominciato a boicottare, delegittimare o privare di considerazione una determinata figura, con l’obiettivo di affossarla socialmente ed economicamente.
Tuttavia a seguito della morte di George Floyd, quest’imponente ondata di “damnatio memoriae” è andata sempre più ingrossandosi, in quanto l’obiettivo di cancellare ed eliminare le tracce di un passato caratterizzato da valori e ideali completamente diversi da quelli attuali, ha indotto alla rimozione ed all’abbattimento di statue o monumenti di rilevanza storica, alla cancellazione di opere, alla loro modifica o direttamente alla rimozione dai cataloghi.
In un climax ascendente di boicottaggio e protesta, il fenomeno cancel in continua evoluzione non conosce confini geografici, espandendosi dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno.
Non è casuale il riferimento a Napoleone, colpito anch’egli da questa forma di moderno ostracismo che lo ha riesiliato per la seconda volta.
Il bicentario della sua morte ha infatti visto contrapporsi l’un contro l’altro armati gli antinapoleonisti ed i napoleonisti.
Se i sacerdoti della cancel culture non hanno dato la benedizione alla celebrazione di una figura definita razzista, sessista, dispotica, militarista, colonizzatrice e ripristinatrice della schiavitù, invece, i napoleonisti hanno premuto per commemorare la grandezza dell’Imperatore, meritevole di aver modellato la Francia contemporanea, proiettandola nell’avvenire grazie ad una serie di innovazioni dal campo del diritto a quello delle libertà civili, ponendo così le basi della moderna amministrazione.
Il “postero” Emmanuel Macron nella sua ardua sentenza ha tuttavia deciso di celebrare l’anniversario della morte di Napoleone che a suo dire rappresenta “una figura maggiore della nostra storia che bisogna guardare in faccia con gli occhi spalancati, incluso per quei momenti che possono essere stati difficili e per scelte che appaiono oggi contestabili”.
Messo in scaccomatto l’Imperatore, scacco pure alla Regina.
E’ accaduto che un gruppo di studenti residenti al Magdalen College dell’Università di Oxford abbia deciso di rimuovere dalla sala comune la foto della Regina Elisabetta, in quanto l’immagine della sovrana è un simbolo della recente storia coloniale del Paese. Tale scelta è stata avallata dalla presidente del College, che ha difeso il diritto degli studenti al cosiddetto “free speech”, in nome della libertà di dibattere su qualsiasi argomento, anche se in provocazione verso le vecchie generazioni.
Dal canto suo, il ministro dell’Istruzione Gavin Williamson in un tweet ha qualificato il gesto come “semplicemente assurdo”, parlando di atteggiamento divisivo, privo di impatto positivo e che oltrepassa il senso della misura.
God save the Queen, but also the stars and stripes Presidents ! La guerra avviata dalla cancel culture progressista, ha messo nel mirino anche i padri fondatori colpevoli di appartenere ad una cultura patriarcale e razzista e di aver vissuto una vita “macchiata di razzismo, oppressione e violazione dei diritti umani”.
Sotto la scure revisionista sono così cadute le statue di Thomas Jefferson, presidente eroe illuminista mente della Dichiarazione di Indipendenza, ma pur sempre famoso proprietario di schiavi, e quella di Abraham Lincoln, ucciso per avere abolito la schiavitù e per aver liberato milioni di schiavi, ma ciononostante accusato dai cancellisti di averlo fatto con indugi, politicismi e lentezze.
La furia iconoclasta ha colpito pure Cristoforo Colombo, principale vittima dell’odio cancellista, visto non più quale grande navigatore che ha scoperto l’America, ma come “sterminatore di indiani” e propiziatore dello sfruttamento e del genocidio degli abitanti del nuovo mondo.
Così non solo 30 statue dell’esploratore sono state vandalizzate, abbattute e rimosse, ma addirittura diverse città USA si sono autoproclamate Columbus Day Free ed il giorno dedicato a Colombo è stato trasformato nell’ “Indigenous People day”.
Se i simboli della storia più recente sono stati messi in discussione, anche quelli della cultura classica non dormono sonni tranquilli.
Si pensi che alcuni ambienti accademici stanno cominciando a bandire dai programmi di studio, tutto ciò che risulta essere in odore di imperialismo e suprematismo bianco di ispirazione neocoloniale.
Per Dan-el Padilla Peralta, professore di storia romana a Princeton, i classici non meritano di avere un futuro perché nascono per perpetuare il dominio razziale bianco, avendo funzionato da lasciapassare morale per il colonialismo e la sopraffazione delle altre popolazioni.
In una High School del Massachusetts gli insegnanti, in nome del «Disrupt Texts», hanno rimosso l’Iliade e l’Odissea dai programmi di studio, poiché non conformi ai dogmi del progressismo liberale, in quanto a loro dire Omero era un bieco razzista e sessista ed Ulisse un modello di “mascolinità tossica”.
Di contraltare, gli storici “anticancellazione” nel definire i cancellisti “paranoici becchini americani” sostengono che, con la cancellazione di Atene e Roma, è la Ragione ad essere ostracizzata (il logos greco) e la Legge ad essere bandita (i codici romani). Essi dubitano che l’Eneide, poema epico narrante l’amore, la pietas e la giustizia, possano essere dimenticati solo perchè Augusto era biondo e Ercole aveva la pelle bianca. D’altronde come pure affermato da Marguerite Yourcenar nel celebre Memorie di Adriano “quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco”.
Il menu cancellista non ha terminato le sue portate, presentando nel suo ricettario addirittura una critica alla classica torta della nonna, definita anch’essa razzista.
Per Raj Patel, giornalista del Guardian, il dessert è frutto del colonialismo e della schiavitù, se si considera che le mele hanno viaggiato nell’emisfero occidentale con i coloni nel 1500 nel cosiddetto scambio colombiano, e che lo zucchero è un prodotto indissolubilmente legato al commercio di schiavi francesi a New Orleans.
L’immaginazione insomma non ha limiti, e la fantasia del bavaglio oscurantista cancel si è spinta addirittura verso la direzione di privare i nostri bambini del diritto di fantasticare coi cartoni animati.
Se Peter Pan è reo di chiamare i nativi americani ‘pellerossa’, gli Aristogatti sono stati criticati per colpa del gatto siamese Shun Gon, raffigurato come “una caricatura razzista dei popoli asiatici”, mentre Dumbo è colpevole di essersi fatto beffe della schiavitù afroamericana a causa di una canzone cantata dai corvi.
Di questo passo non possiamo immaginare dove possa spingersi l’enfatizzata tendenza a silenziare fenomeni e uomini del passato, percepiti come portatori di valori deprecati e talvolta offensivi, in base agli standard morali e ai criteri di giudizio odierni.
Nutriamo il timore che la cattiva abitudine di non rileggere la storia nel suo contesto, proiettando indietro nel tempo le ossessioni dell’attualità, un domani possa giungere persino a proibire Moby Dick, libro pericolosamente anti-ecologico che incita alla caccia alle balene, o ad imporre di abbattere le Piramidi ed il Colosseo, bellezze universali, pur sempre costruite da schiavi.
Il monitorio “più facilmente condanna chi manco considera” di Giordano Bruno dovrebbe ricordare all’inesorabile processo revisionista, che le fonti storiche – chiavi di volta necessarie a comprendere la cultura di un’epoca con le sue speranze e le sue contraddizioni – sono strumenti da preservare per poter pervenire in modo privilegiato alla conoscenza ed alla consapevolezza del percorso della civiltà umana in ogni suo singolo aspetto.
“Non voglio cancellare il mio passato perché nel bene o nel male mi ha reso quello che sono oggi” affermerebbe Oscar Wilde.