Il finalismo di impresa: come generare performance sul contesto attuale

di Michele Costabile

Per molteplici ragioni dall’esplosione dalla pandemia da Covid-19, e fino a pochi mesi addietro, siamo stati sommersi da inconcludenti analisi su “quanto siamo cambiati”, “quanto stiamo cambiando”, “quanto cambieremo”. Vittime di un uragano retorico che ha prodotto molta confusione e poca consapevolezza. Consapevolezza che dovremmo, invece, recuperare e accrescere concentrando gli sforzi sui grandi cambiamenti che, questo è ben certo, la pandemia sta accelerando e, per certi versi, pure ampliando.

Si tratta anzitutto di sgombrare il campo dalle retoriche sulle resilienze prive di finalità identificabili e misurabili – “ne usciremo migliori” o “andrà tutto bene” – e dagli atteggiamenti apodittici verso i presunti disvalori delle imprese “capitalistiche” e del Mercato a beneficio di una nuova ondata di sovranismi: da quello sanitario a quello tecnologico ve n’è per tutti i gusti, anche se sembrano avere tutti lo stesso gusto.

Ed ecco che – come la storia di alcuni secoli insegna – dove la concorrenza e il Mercato spingono all’innovazione e all’evoluzione si registrano i cambiamenti più genuini e, auspicabilmente più duraturi. Cominciando proprio dalla maggiore consapevolezza sull’essenza del Mercato quale istituzione sociale nata (da qualche decina di millenni) come nesso di comportamenti di collaborazione e scambio. Si tratta, dunque, di sgombrare la fase della consapevolezza dal confuso groviglio di retoriche della pandemia, per concentrarsi sulle “accelerazioni della storia” (come le ha efficacemente definite lo storico israeliano Yuval Harari) che sono visibili anche senza sforzi oracolari su new, next e altre suggestive qualificazioni del futuro prossimo venturo.

Ebbene fra le accelerazioni in corso merita attenzione quella che si registra nella dinamica del finalismo d’impresa, inteso quale processo di continua ricerca, e di conseguenza continua definizione e ridefinizione, di senso dei ruoli individuali, organizzativi, imprenditoriali, sociali e istituzionali. È una dinamica che, con specifico riguardo alle attività d’impresa, era in corso già da alcuni decenni con fenomeni di primaria portata quali la CSR (Corporate Social Responsibility) ovvero con crescenti attenzioni e investimenti su progetti di ERS (Ethics, Responsibility and Sustainability) e implicazioni sulle decisioni aziendali in tema di “impatti” sulla trilogia ESG (Environment-Social- Governance). Ed è una dinamica che, come intuibile, l’emergenza sanitaria, economica e sociale determinata dalla diffusione pandemica del Covid-19 ha intensamente accelerato.

In questa prospettiva tematica e temporale, si può oggi parlare di una accelerazione del processo di trasformazione “finalistica” del business – nel gergo internazionale purposeful business transformation – e quindi tanto della struttura, delle relazioni e dei contenuti della corporate governancequanto del comportamento quotidiano di individui e organizzazioni: perché nulla è più operativo di una buona governance, esattamente come nulla è più pratico di una buona teoria.

Le “imprese finalistiche”, in questa logica, sono tutte quelle coinvolte e impegnate da una elevata priorità, finanziaria e organizzativa, nell’identificazione e nello sviluppo di conoscenze, atteggiamenti e comportamenti idonei a configurare e condividere, all’interno e all’esterno, un vero e proprio fine trascendente. Un fine, cioè, che trascende i tradizionali confini organizzativi e i convenzionali obiettivi di performance economico-finanziaria, contaminando le pur fondamentali misure di performance del valore con misure di “valore-obiettivo” esterne, ossia riferibili a una o più categorie di stakeholder ambientali, sociali o istituzionali.

Un fine aziendale di questo tipo – non strettamente e/o non solamente e/o non immediatamente economico-finanziario – si traduce in obiettivi di performance non convenzionali su temi sociali o ambientali; obiettivi tali da informare e trasformare la cultura aziendale e, di conseguenza, i comportamenti quotidiani di persone e organizzazioni. Affinché la trasformazione finalistica funzioni, però, gli obiettivi e i fini a cui questi sono logicamente o – meglio ancora – causalmente collegati devono avere la natura di vere e proprie durature “ragion d’essere”, ossia ragioni che giustifichino l’esistenza dell’impresa in termini di contributo sociale che ne deriva. Una sorta di cartina al tornasole di quanto fini e obiettivi funzionino come trasformativi è data, per esempio, dalla misura del coinvolgimento emotivo del personale aziendale e dai differenziali negativi di “short-terminism” e positivi di “long-terminism” che si registrano prima e dopo i principali investimenti trasformativi.

Seppure in apparenza semplice da definire (e per certi versi pure da misurare) il nuovo, e ampliato, “finalismo d’impresa” ha un pesante contrappeso nella difficoltà realizzativa, ossia nel passaggio dall’enunciazione dei princìpi alla sua realizzazione incisiva e duratura.

Una recente metanalisi riportata sul McKinsey Quarterly, per esempio, chiarisce che il 63% delle scelte aziendali guidate dai modelli di ESG hanno generato un ritorno sul valore aziendale positivo, e solo l’8% ha invece avuto un ritorno negativo. Queste analisi, sempre più frequenti, e richiami alla cultura degli investimenti “impact”, peraltro, sono stati letteralmente scatenati da Larry Fink (CEO di BlackRock) quando ha dichiarato che: “Ogni impresa dovrebbe non solo preoccuparsi di realizzare buone performance economico-finanziaria ma anche di dimostrare come e quanto sta contribuendo a generare una positiva performance per il contesto socio-ambientale in cui opera”.

La trasformazione finalistica delle imprese è ben visibile anche nel nostro Paese e l’emergenza Covid-19 ha reso, in questi drammatici 9 mesi, ancora più esplicito l’impegno dei vertici di molte imprese in questa direzione. Molti sono stati costretti a intervenire accelerando la trasformazione tecnologica delle loro organizzazioni – la più evidente e trasversale delle quali è stata certamente quella digitale – ma contemporaneamente anche quella finalistica, immaginando ovvero re-immaginando il loro futuro. Un futuro che, è ormai ben chiaro a tutti, non può esistere senza stakeholder – e ambiente fisico – vivi e in buona salute (parafrasando un famoso brando dei Simple Minds).

La pandemia ha distrutto la salute pubblica e danneggiato significativamente strutture e infrastrutture sanitarie, economiche e sociali.  In questo clima di generalizzata incertezza, per molte imprese prendersi autenticamente cura del benessere dei loro stakeholder è stata una reazione quasi istintiva. Un’indagine condotta da Kantar (primario istituto di ricerca globale, partecipato da gruppo WPP) ha mostrato che l’80% di un campione formato da oltre 35.000 persone intervistate su scala globale ha scrutinato con estrema attenzione il comportamento delle imprese verso i propri dipendenti, e la cura che queste hanno mostrato per garantire adeguati livelli di sicurezza e benessere. Del resto ben il 78% ha dichiarato di attendersi sensibilità e reattività delle imprese verso il welfare dei propri stakeholder, dipendenti in primis, considerando con cura il tasso di conversione di intenzioni e dichiarazioni in effettivi ed efficaci comportamenti di cura. Analogamente il 45% dei clienti hanno mostrato altissima attenzione alla cura della sicurezza parte delle imprese, considerandola una sorta di dovere prioritario rispetto a ogni altro genere di offerta promozionale.

L’impegno ad accettare e “giocare” sfide sociali è stato senza precedenti. Dai brand grandi e storici come Ferrari, Armani, Decathlon e Bulgari, a quelli più recenti degli influencer (Ferragni su tutti) sono tantissime le imprese che hanno riconvertito con immediatezza le loro produzioni, sostenendo un impegno economico e organizzativo davvero significativo da “capitalismo consapevole” (come già da tempo l’ha definito Raj Sisodia). Tutte imprese che hanno accettato una sfida che, seppure si possa considerare allo stato nascente, è qui per rimanere e crescere. Ecco perché vale la pena curare, evitando il “presentismo” tipico delle mode effimere, la fase della consapevolezza per iniziare col piede giusto ad approfondire i “princìpi” di buona gestione della “trasformazione finalistica” delle imprese. Di seguito alcuni temi di un dibattito aperto, che e non sarà semplice e breve.

  1. La “transformazione finalistica” non è “naturale” né facile, bensì richiede metodo e sacrifici sia economici che cognitivi. È importante per esempio chiarire e misurare con estrema cura il bilanciamento delle performance convenzionali e di quelle “finalistiche”. Il 33% dei manager intervistati di recente da McKinsey ha riportato di soffrire la dissonanza percepita fra finalità ampie e lunghe e obiettivi di performance convenzionali e brevi; mentre il 72% dei dipendenti si attende che le finalità ampie e lunghe, se autentiche, siano valutate come più importanti dei convenzionali obiettivi economico-finanziari. La sfida quindi è anzitutto quella di scegliere prima, e bilanciare poi, fini e ragion d’essere coerenti con la natura, la storia e la cultura aziendale, definendo una mappa causale che chiarisca come nella quotidianità, e non solo nelle ovattate board room, vi sono percorsi di integrazione fra obiettivi economico-finanziari di breve e performance di lungo periodo; e come queste ultime di fatto rigenerano la capacità competitiva e di raggiungimento dei migliori obiettivi economico-finanziari anche in prospettiva intertemporale. Come dire la sfida è rendere la speranza del tempo breve una buona memoria del tempo lungo. Richiamando l’espressione usata da Brand Bird di Pixar: “i soldi sono come il carburante per un razzo. E prima di lanciare qualunque razzo bisogna capire dove si punta. E i luoghi più belli e motivanti su cui puntare sono finalità sociali e ambientali che distinguono la ragion d’essere di una organizzazione, rendendola unica e attraente per ogni genere di stakeholder”. È un lavoro, insomma, di alta capacità politica in grado di bilanciare interessi ambientali sociali correnti e futuri; interessi dei dipendenti e dei clienti, dei fornitori e dei partner. Ed ecco che la capacità di scegliere e definire priorità, rifuggendo la genericità delle finalità ambientali e sociali (che purtroppo tendono a essere seguite come gli sciami delle mode), per declinare con perimetri e misure specifiche quelle concrete e coerenti con il business dell’impresa è il primo passo nella giusta direzione. Insomma, l’accelerazione in corso è verso un finalismo corporate-related e brand-specific, che consideri quindi il patrimonio storico dell’impresa, la sua identità, le sue priorità strategiche e ci conseguenza renda il fine autenticamente “organico” all’impresa che lo adotta.
  2. Una volta definiti il fine e il processo “finalistico” di trasformazione aziendale diventa fondamentale far evolvere nuove routine organizzative. Routine che rendano il processo di sense making sempre più e meglio interconnesso a dinamiche di generazione del valore aziendale e, per converso, il processo di generazione e diffusione di valore aziendale sempre più (e meglio) strumentale alla definizione e all’attribuzione di senso alla propria esistenza professionale e aziendale. Per questa ragione, la riflessione sulle ragion d’essere delle aziende ben oltre i confini convenzionali delle organizzazioni, e in tal senso la “trascendenza” imprenditoriale e organizzativa, ossia la finalità di contribuzione al bene comune, deve diventare un esercizio sistematico ed evolutivo, e in tal senso una vera e propria routine. È alto il rischio di essere percepiti come opportunisti o inautentici, indifferenziati e quindi “anonimi”, anche dopo aver sostenuto investimenti rilevantissimi sotto il profilo finanziario e organizzativo – con la conseguenza di generare vere e proprie frustrazioni ovvero nevrosi organizzative. Per mitigare tali rischi è fondamentale progettare con metodo la fase di “sensing” su business (identità e patrimonio storico aziendale), mercato e stakeholder (attese e convergenze di valori e finalità), preparandosi a una continua manutenzione evolutiva del “business purpose”. Lo sforzo di definizione del finalismo, infatti, se ben progettato diventa il fondamento della valorizzazione dell’impresa nel tempo. E sul punto vale la pena richiamare l’idea magistralmente presentata da Jorge Luis Borges nel suo capolavoro dal titolo “Storia dell’Eternità”. Borges, infatti, spiega bene che l’Eternità è una fondamentale rappresentazione sociale, intuibilmente insuperabile in quanto a lunghezza temporale dell’orientamento che induce: inventata dagli uomini per affrontare con adeguata energia il sacrificio del quotidiano domani. Ecco che, in buona analogia, la costruzione e la rigenerazione di senso attorno a un fine ampio e lungo per l’impresa, produce quel valore fondamentale che è rappresentato dall’energia degli individui e delle organizzazioni che realizzano beni e servizi sempre nuovi e di valore. Non altro quindi se non quei beni e servizi nuovi e migliori, per il benessere ambientale e sociale, e di cui abbiamo drammaticamente bisogno.

(Articolo pubblicato su Luiss Open il 14 aprile 2021)