Il piano di rilancio di Joe Biden: un nuovo inizio

di Francesco Saraceno

La settimana scorsa il congresso americano ha approvato il piano di salvataggio del presidente Biden che, al di là delle dimensioni eccezionali, segna un cambiamento di prospettiva radicale riguardo al debito pubblico, alla relazione tra governo e politica monetaria e, soprattutto, alla volontà di combattere la disuguaglianza. Il piano da 1.900 miliardi di dollari, che si aggiunge ai 900 miliardi di già votati a dicembre porterà ad un sostegno totale del 13% del PIL; anche senza contare i più di 2000 miliardi della primavera 2020, questo rappresenta il più grande pacchetto di stimolo del dopoguerra. A chi si stupisce della mancanza di investimenti pubblici l’amministrazione ha già fatto sapere che un piano di “ripresa”, di circa 2000 miliardi, sarà presentato una volta che questo piano di “salvataggio” avrà messo la crisi alle spalle.

I soldi alle famiglie 

Circa la metà della cifra andrà alle famiglie, con un assegno di 1400 dollari versato agli individui con un reddito inferiore ai 75000 dollari (circa la metà degli americani; a titolo di confronto, in Italia sarebbero gli individui con un reddito inferiore ai 1400 euro al mese circa) per poi diminuire progressivamente oltre questa soglia. Questa misura, alla quale si aggiungono un credito d’imposta in materia di assistenza all’infanzia e l’estensione della durata dei sussidi di disoccupazione, va al di là di un semplice contrasto alla povertà.  L’amministrazione Biden segnala con forza che la riduzione delle disuguaglianze sarà un obiettivo del suo mandato.  Il resto del piano va a sostenere le istituzioni (tra cui i fondi pensione) rese fragili dalla crisi.

Troppo stimolo?

Il piano ha suscitato un interessante dibattito anche tra gli economisti di area keynesiana. Alcuni, come Olivier Blanchard e Larry Summers, hanno notato che il piano ammonta a quasi quattro volte la stima dell’output gap (la differenza tra il PIL corrente e quello detto potenziale) e si preoccupano degli effetti inflazionistici di uno stimolo così spropositato alla domanda aggregata. Summers nota anche come questa sorta di “big bang” fiscale rischi di consumare molto del capitale politico di Biden, che quindi avrà difficoltà a far passare i suoi progetti per l’investimento e la transizione ecologica. Altri, tra cui Paul Krugman, ritengono invece che una terapia di shock sia necessaria per evitare che la crisi si trascini con effetti permanenti sull’occupazione e sulla produttività.

I timori di instabilità macroeconomica a dire il vero non sembrano giustificati. Le prime stime parlano di un aumento transitorio di qualche punto dell’inflazione, certo non preoccupante. Questo perché da un lato l’aumento della domanda potrebbe dare impulso ad una riorganizzazione della produzione e ad un aumento della produttività. Esiste una letteratura abbondante (che potrebbe essere particolarmente rilevante nel caso di uno shock di dimensioni così eccezionali) sull’innovazione generata dalla domanda.  Dall’altro, perché la domanda si orienterà probabilmente anche sulle importazioni. Ancora una volta la locomotiva americana si appresta a trainare il resto dell’economia mondiale. È quindi ragionevole affermare che i timori di fiammata inflazionistica sono eccessivi, anche se la disoccupazione potrebbe scendere ai minimi storici e provocare (infine!) un aumento dei salari più bassi (ricordiamo che negli Stati Uniti impazza anche il dibattito sull’aumento del salario minimo). Infine, la banca centrale, la Fed, ha già segnalato la propria intenzione di non reagire con un aumento dei tassi anche in caso di aumento dell’inflazione oltre il 2%. Significativamente, il chairman della Fed Powell ha sostenuto il piano con posizioni simili a quelle di Paul Krugman. Un’inflazione più elevata sia pur moderata, con tassi che rimangono bassi, garantirebbe la sostenibilità del debito americano, finanziato inoltre da un risparmio globale mai elevato come in questo periodo.

Esagerato, ma benvenuto

Insomma, il piano è sovradimensionato, ma i rischi macroeconomici sono limitati. Questo ci consente di concentrarci sugli aspetti distributivi, ben più interessanti. Oltre all’effetto diretto sui redditi più bassi, il piano porterà probabilmente ad una ridistribuzione del reddito tra risparmiatori (penalizzati dai tassi di interesse che resteranno moderati) e lavoratori (soprattutto i redditi più modesti) i cui salari aumenteranno con l’inflazione e oltre. Ricordiamo che dalla fine degli anni Settanta la quota dei salari sul reddito è diminuita del 5 per cento, e che all’interno del monte salari le disuguaglianze si sono approfondite. Un aumento della quota dei salari porterebbe probabilmente ad un ridimensionamento dei mercati azionari e ad un ulteriore riduzione delle disuguaglianze (solo la metà degli americani possiede titoli azionari, direttamente o attraverso i propri fondi pensione). Sarà interessante seguire il dibattito dei prossimi anni: l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze, consensuale fin quando è astratto, genererà conflitti quando saranno chiari con precisione vincenti e perdenti delle singole misure.

Lezioni americane

E l’Europa in tutto questo? Intanto facciamo attenzione a non flagellarci oltre misura. Certo, le cifre dei piani statunitensi fanno impressione. Ma non dimentichiamo che essi contengono misure che nei nostri paesi sono già incorporate nei sistemi di welfare nazionali. Lo sforzo delle politiche di bilancio europee è di un po’ inferiore a quello di oltreoceano ma rimane significativo. Se il problema non è di dimensioni allora, quali sono le lezioni che possiamo trarre dal piano Biden? La più immediata, e banale, è che il whatever it takes è quanto mai d’attualità: occorre fare tutto per uscire il prima possibile dall’emergenza economica oltre che sanitaria e non aver paura del rischio di surriscaldamento dell’economia; al contrario, la fine di una semi stagnazione ormai più che decennale potrebbe stimolare investimento, innovazione e progresso tecnico. Poi, una politica di bilancio aggressiva sarà possibile solo se le politiche monetarie accomodanti proteggeranno le spalle dei governi. Mentre è ragionevole attendersi che le politiche di acquisti di titoli continueranno ancora a lungo, la Bce è rimasta silente sulla propria strategia riguardo all’inflazione. Sarebbe auspicabile che al pari della Fed essa segnalasse di voler raggiungere un obiettivo medio di inflazione al 2%, perseguendo quindi nel medio periodo tassi più elevati per compensare il lungo periodo di prezzi stagnanti che stiamo vivendo.  Infine, ma non da ultimo, il piano Biden ci ricorda che le nostre società sono progressivamente diventate più diseguali e che questo rappresenta una minaccia per le nostre economie al pari del cambiamento climatico. Fra le priorità dei prossimi anni la sostenibilità sociale dovrà avere un posto accanto a quella ambientale. Gli Stati Uniti potrebbero aver avviato un cambiamento di paradigma. C’è da sperare che l’Europa li segua con decisione.

(Articolo pubblicato in data 19 marzo 2021 su Luiss Open)