Il retroscena: eclissi di un genere giornalistico?

di Domenico Bonaventura

Conoscere il dietro le quinte della politica piace a tutti: agli addetti ai lavori e ai lettori. Quel “non detto” che a volte ha più valore del “detto”. Quelle interpretazioni di frasi sospese a metà tra l’uso dei significanti verbali di Ferdinand de Saussure e il politichese di Forcella. Quella via stretta, per certi versi angusta, che passa attraverso il rapporto in grado di svilupparsi tra i vettori del senso e il significato, tra chi ha il compito di rappresentare la politica e l’opinione pubblica.

Il nuovo governo ha portato con sé, come spesso accade, cambi negli staff ministeriali e, prima di tutto, a Palazzo Chigi. La squadra di Mario Draghi, dopo la nomina del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Roberto Garofoli e del Capo di Gabinetto Antonio Funicello, si è completata anche con l’area della comunicazione istituzionale. Draghi ha scelto Paola Ansuini, con la quale ha lavorato in Banca d’Italia nelle vesti di Direttore della Comunicazione di Palazzo Koch. Un altro nome scelto nel ruolo di consulente dei media internazionali è quello di Ferdinando Giugliano, giovane giornalista di Bloomberg. La Ansuini si sposa perfettamente con la «comunicazione stile Bce” a cui Draghi è abituato e a cui ha abituato i giornalisti, italiani e stranieri. Sono state consegnate alla storia le due pagine che i giornalisti del NY Times avevano riempito, fiaccati dalla disperata ricerca di notizie non trovate, parlando dei colori delle cravatte indossate da Mister Whatever It Takes. E ciò, nel tentativo, non certo facile, di ricercare un ponte concettuale tra le preferenze cromatiche di Draghi, in occasione delle conferenze stampa alla Bce, e le decisioni che egli andava a comunicare.

Da Palazzo Chigi arrivano e probabilmente arriveranno solo informazioni istituzionali. «Non abbiamo ancora fatto niente, quindi oggi non dobbiamo comunicare niente», disse Draghi nel corso del suo primo Consiglio dei Ministri, subito dopo il giuramento del suo governo misto tecnici-politici, a chi gli chiedeva la sua opinione circa il tema della comunicazione. Alea iacta. Nessuna velina, ovvero nessuna comunicazione fatta filtrare per orientare i giornalisti nei propri commenti. Nessuna chat e nessun audio-messaggio da inviare su Wathsapp ai newsmakers.

Da qualche settimana è possibile notare, senza dover necessariamente ricorrere ad un’analisi del contenuto, quanto sia in sofferenza il “retroscena”. Si tratta di un genere giornalistico in auge da decenni, ma che si è sviluppato in misura maggiore rispetto al passato con l’avvento dei media digitali. I manuali di giornalismo raccontano le gesta di cronisti d’assalto appostati nei posti più improbabili di Camera e Senato e più in generale dei palazzi della politica per cogliere brandelli di conversazione tra ministri, parlamentari (magari avversari) e costruirci un racconto anche con l’uso, a volte troppo disinvolto, delle virgolette. Gli stessi manuali raccontano anche di indiscrezioni fatte arrivare alle firme dei quotidiani e dei tg in base al doppio presupposto che la fonte resta riservata e che si può verificare in anteprima l’effetto che quell’informazione riservata può sortire all’interno del proprio o dell’altrui partito. Il primato del “dietro le quinte”, del backstage, insomma. Mentre sul proscenio va in scena ciò che può (e che deve essere) rappresentato, qualcuno si prende la briga di alimentare, attraverso appunto i retroscena, versioni alternative o più semplicemente integrative di quelle ufficiali.

È stato così per anni. E ora? Ci si chiede se sia giunta l’ora di una nuova comunicazione, diversa, istituzionale, fattuale e forse anche più formale. In molti si chiedono che fine farà questo modo di fare giornalismo che con il tempo è diventato un vero e proprio genere newsmediale. Il sovraccarico di news – che Giorgino e Orsina

hanno definito su MICS «overload informativo» – ha determinato, tra gli altri, anche l’effetto di ergere il gossip a notizia politica.

Siamo di fronte a quella che Papuzzi chiamava «doppia funzione dell’informazione politica». Funzione attiva e funzione passiva. La prima è esercitata quando i giornali si schierano e prendono posizione apertamente, facendosi portavoce di una linea politica, di una prospettiva interpretativa, di convinzioni ideologiche o di interessi di parte. La seconda attiene invece a quelle informazioni che una testata mette a disposizione del cittadino sulle attività svolte dalle istituzioni pubbliche o sui comportamenti/orientamenti della classe politica, mantenendo un atteggiamento meno partecipativo e più neutro. Chiaramente, il genere del retroscena rientra a pieno titolo nella prima funzione. Perché, come detto, attraverso il sapiente utilizzo dei «si dice», delle «voci di corridoio», degli «spifferi da Palazzo», perché offre una visione peculiare e un punto di vista specifico, inducendo a credere che Tizio ha avuto una rovente telefonata da Caio tanto da costringere Sempronio ad intervenire per mediare.

La fine, o più verosimilmente il ridimensionamento del retroscena, potrebbe anche portare un miglioramento in ordine alla percezione dell’attività svolta dai giornalisti. Molto dipende da come questo cambio di passo influirà sulla riorganizzazione dei processi produttivi e sulle fasi del newsmaking. Molto dipenderà anche da come si intrecceranno i piani della comunicazione dell’era Draghi collocati da Giorgino sul Sole 24 Ore e su Luiss Open in tre macro categorie: comunicazione del premier e dei ministri tecnici; comunicazione dei ministri politici; comunicazione dei leader politici.

Ci sono due strade: una più conservativa e l’altra più improntata all’evoluzione. La prima strada prevede il ritorno alla situazione antecedente alla nascita del governo Draghi. Strutture comunicative – tanto a Palazzo Chigi quanto nei ministeri – che tendono a oltrepassare il confine esistente tra la dimensione istituzionale (decisioni prese, provvedimenti assunti) e quella politica (intesa alla Mazzoleni nei suoi risvolti retorici e propagandistici) e che, dunque, tornano a utilizzare “veline”, spinning e altro per massimizzare il consenso. La seconda strada comporta che il giornalismo, calibratosi su questo nuovo contesto, si riscopre più attento ai fatti e certamente incline all’analisi, ma non più sul presupposto del pettegolezzo politico.

Staremo a vedere e vi aggiorneremo.