Il ruolo dei media nelle Primavere Arabe. Una riflessione 10 anni dopo
di Anna Dainelli
Dieci anni dopo l’ondata di proteste che scosse il mondo arabo. Quadro ancora in divenire. Anche le piattaforme social nel frattempo sono cambiate
Sidi Bouzid è una piccola cittadina rurale che si trova nel cuore della Tunisia, una località pressoché anonima, non certo avvezza ad ospitare fatti che segnano la storia. O almeno questo è quanto accaduto fino a dieci anni fa, esattamente fino al 17 dicembre 2010, giorno in cui Mohamed Bouazizi, giovane laureato di 26 anni che manteneva sé e la sua famiglia lavorando come venditore ambulante, si vide sequestrare la propria merce dalla polizia e decise di darsi fuoco in strada, di fronte al municipio. L’atto estremo di Mohamed – compiuto, non lo sapremo mai con certezza, se per protesta o per disperazione – non restò isolato come altri prima di esso. Non si esaurì lì, ma nel momento della nascita delle tv satellitari panarabe e della grande ascesa dei social network, diede il via alle cosiddette Primavere Arabe: un’ondata di proteste che nel giro di poche settimane rovesciò in Tunisia il regime di polizia di Ben Ali, al potere da oltre vent’anni, e nei mesi successivi anche quelli di altri dittatori come Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia, Saleh nello Yemen.
Oggi, a dieci anni esatti da quegli episodi che portarono pesanti sconvolgimenti politici in quelle aree con enormi ricadute in tutto il Nord Africa, nel Medio Oriente e nel mondo intero, possiamo osservare meglio le dinamiche della comunicazione e l’efficacia della veicolazione ed attualizzazione di quelle istanze manifestatesi nelle piazze di Tunisi, del Cairo, di Bengasi e Tripoli, di Sana’a, ma anche di Baghdad (Iraq) e di Damasco (Siria).
Nella cronaca di quei giorni, molti media occidentali definirono tali proteste le “rivoluzioni di Internet”, poiché per la prima volta nella storia dei social network come Facebook e Twitter, questi canali vennero utilizzati come strumenti di organizzazione, di connessione fra le persone e di pubblicizzazione delle manifestazioni nelle piazze. Dal gennaio 2011 in Egitto, attraverso i social, i manifestanti prepararono la mobilitazione civile che ebbe come epilogo la deposizione del presidente Mubarak in carica dal 1981. A nulla valse neppure il tentativo del dittatore di oscurare i principali fornitori di servizi e connessioni Internet nazionali a fine gennaio, poiché già dai primi di febbraio questi ripresero a fare networking. Cominciarono a diffondersi sul web parole chiave come #Jan25 e #Tahrir dalla data e dal nome della piazza del Cairo occupata da decine di migliaia di manifestanti.
Nelle Primavere Arabe il web ha infatti di sicuro permesso quella copertura mediatica che si è dimostrata efficace per la mobilitazione delle società. I social si sono rivelati canali attraverso i quali seguire e supportare l’attività dei manifestanti e anche consolidare il sostegno internazionale alle proteste. Ricordiamo che nel marzo 2011, proprio a causa del teso contesto politico e sociale in quelle zone, venne annullato un importante appuntamento sportivo di portata mondiale come il Gran Premio di Formula 1 nel Bahrain e in quegli stessi mesi Twitter e diversi media misero in ampia evidenza le difficoltà in cui turisti e lavoratori incappavano in Egitto e Libia, ritrovandosi ostaggi degli eventi che stavano accadendo.
Piattaforme come Facebook e Twitter, rendendo possibile lo scambio di contenuti, file, video, immagini, testi, idee, in quelle settimane e mesi fra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, misero in contatto un gran numero di persone, fecero da “megafono” e alimentarono il passaparola creando una estesa rete di mobilitazione e di comunicazione. Furono inoltre quei mezzi che agevolarono e veicolarono il flusso delle informazioni e delle controinformazioni che altrimenti, sui canali pubblici e statali di quei Paesi, non avrebbero trovato spazio. Essi in qualche modo accelerarono la diffusione di notizie che, in diverso modo, sotto quei regimi che restringevano la libertà di espressione e di associazione, avrebbero impiegato molto più tempo ad approdare sui media tradizionali internazionali. In Egitto, ad esempio, proprio attraverso Facebook, Twitter e YouTube, fra gennaio e febbraio 2011 i manifestanti riuscirono a trasmettere informazioni su quel che stava accadendo nelle loro città anche al resto del mondo. E in Siria, attraverso la rete, furono documentati diversi crimini contro civili.
Quindi, che i social network e la loro capacità mediatica abbiano avuto una centralità nella formazione delle Primavere Arabe e nei processi di costruzione della sfera pubblica, fu chiaro fin da subito. Anche perché – come analizzava già un Report redatto nel settembre 2011 dall’Osservatorio di politica internazionale del Parlamento Italiano – su questo fenomeno storico e sociale influì la cornice demografica di quei Paesi che presentavano allora (e in buona parte anche oggi) una nutrita “massa critica” di giovani under 25 particolarmente colpiti dal malcontento generale diffuso nel mondo arabo dovuto all’immobilismo socio-economico. A questo teso quadro sociale, si aggiunse in quel periodo il repentino diffondersi dei progressi nel campo della tecnologia delle telecomunicazioni che colse di sorpresa la maggior parte dei regimi di quelle zone, abituati ad avere il pieno controllo del flusso d’informazione. Una forte spinta innovativa, dunque, che portò i cittadini a sfruttarne i vantaggi in termini informativi e organizzativi in chiave attivistica ed i governi a utilizzarli come ulteriori strumenti di propaganda e repressione. Che poi tutto questo, altro non è che l’esasperazione del doppio uso sul quale si sono da sempre fondate le piattaforme social: accrescere la partecipazione dei cittadini alla vita democratica, ma anche intensificare la presenza dei governanti all’interno della sfera pubblica.
Visti gli esiti frastagliati dei diversi teatri delle Primavere Arabe, appare problematico parlare in tutti i casi di “rivoluzioni” e ancor più di “rivoluzioni di Facebook o Twitter”. In Egitto e in Siria, per portare due esempi, per quanto i social network e i media tradizionali siano stati il motore e la cassa di risonanza delle proteste, in ordine alla libertà di comunicazione, il risultato non è stato all’altezza delle aspettative e anzi, semmai, ha portato all’aggravamento delle condizioni di partenza, poiché l’iniziale spinta democratica si è infranta contro il contesto e l’eredità culturale, sociale e politica di quei Paesi.
Unico caso di successo di queste rivoluzioni pare essere stato la Tunisia, dove le proteste hanno effettivamente portato ad un cambiamento in chiave democratica. Questo è però avvenuto plausibilmente perché quelle istanze rimostrate dai manifestanti nelle piazze, grazie al veicolo dei social media, sono giunte fin dentro ai palazzi del potere e i politici ne hanno preso definitivamente coscienza.
I social possono essere dei canali attraverso i quali far convogliare idee di cambiamento, ma non possono essere da soli i generatori di un concreto mutamento politico ed istituzionale, a meno che non vengano accompagnati da una maggiore e differente responsabilizzazione della condotta delle istituzioni disposte ad ascoltare le richieste della società. Quelle proteste che promettevano cambiamento hanno avuto successo laddove il contesto politico lo ha permesso e quando e se i “rivoluzionari” le hanno sapute traghettare verso iniziative più strutturate. A riprova di quanto si sta sostenendo, in Psiche e Techne Galimberti sostiene che il problema non è tanto ciò che possiamo fare noi con gli strumenti tecnici, quanto la tecnica può fare di noi.
Oggi, dieci anni dopo il gesto estremo di Mohamed, il bilancio del fenomeno delle Primavere Arabe resta sospeso tra la rivendicazione di un momento eroico, la celebrazione del potere salvifico dei social network e la presa d’atto delle difficoltà a realizzare fino in fondo i cambiamenti auspicati. Gli egiziani, i siriani, i libici e gli yemeniti hanno visto sprofondare i loro Paesi in guerre e conflitti e la spinta islamista ha persino riportato dittature militari e governi autoritari. Ma anche i tunisini, unici esempi di un processo di democratizzazione che altrove non è mai neppure partito, hanno imparato che senza una ridistribuzione economica più equa e un vero progresso sociale, la sola libertà resta un frutto preziosissimo, ma amaro. Ad oggi, la cosiddetta “rivoluzione di Internet” non pare aver performato fino in fondo. Sembra che altri movimenti continuino ad agitare il mondo arabo in parti che non furono toccate dalle proteste nel 2010 e 2011: la rivoluzione del sorriso o movimento hirak iniziato a febbraio 2019 in Algeria per opporsi al quinto mandato del presidente Bouteflika, piuttosto che la thawra (letteralmente, rivoluzione) in Libano e il movimento di proteste che nel 2019 in pochi mesi ha rovesciato il regime di Bashir in Sudan.
Infine, va considerato che quei social nati per garantire la massima libertà di espressione e che dieci anni fa assolvevano pienamente al compito di raccontare la realtà denunciando crimini e minoranze, oggi stanno cominciando a cambiare forma. Fenomeni come la costante crescita del numero di utenti online, la spinta a disintermediare e a rendere gli utenti co-creatori di contenuti, la propagazione di notizie false e la creazione di account fasulli, rendono sempre più complessa la lettura degli eventi. Anche di questi eventi. Obbligano a non sottovalutare la capacità di controllo delle piattaforme da parte di soggetti pubblici e privati con modalità che impattano, direttamente o indirettamente, sugli equilibri della democrazia. Ad ogni latitudine.