La comunicazione e la sfida della verità. A proposito del messaggio del Papa

di Francesco Giorgino

Un’istantanea dei giorni nostri con gli occhi rivolti al futuro. Il messaggio di Papa Francesco per la cinquantacinquesima giornata mondiale delle comunicazioni sociali affronta in poche righe opportunità e insidie dell’ecosistema digitale. In questo documento, nel quale si ricorda che San Paolo oggi avrebbe usato la posta elettronica e i social network, si argomenta intorno ad una questione cruciale: il valore della verità è recuperabile solo attraverso la partecipazione ai fatti della realtà che si intende rappresentare, solo attraverso il desiderio di testimonianza e l’incontro tra le persone.

Il presupposto teorico-empirico dal quale ci si muove è sintetizzabile anzitutto con l’esigenza di uscire dalla comoda “presunzione del già saputo”. Sovente infatti capita di assistere a manifestazioni di pigrizia intellettuale che incoraggiano il consolidamento della cultura del pre-giudizio (come tale limitata e limitante), inducendo i pubblici a muoversi solo al livello di superficie dei processi di significazione in chiave denotativa e connotativa. Situazione quest’ultima resa ancor più evidente dall’equivoco (dai più coltivato) di reputare valida l’equazione “connessione uguale comunicazione” e dalla determinazione a considerare performanti tutte le soluzioni comunicative ispirate dall’aspirazione alla simmetria tra emittenti e riceventi, quasi si volesse disconoscere l’importanza delle mediazioni simbolico-culturali ad opera di organizzazioni e di soggetti professionalizzati.

Il tema della verità è cruciale a maggior ragione di fronte ad una realtà iper-complessa, che difficilmente potrà essere rappresentata e quindi percepita ricorrendo a chiavi interpretative semplificate. La questione delle fake news, alla quale il Papa fa riferimento indirettamente attraverso l’invito a “venire e vedere” per “imparare solo attraverso l’esperienza”, si affronta più correttamente se si annotano tre concetti chiave. Il primo. Sarebbe un errore concentrarsi solo sulla polarizzazione verità/falsità, poiché sono in circolazione molti messaggi verosimili, talvolta più dannosi di quelli non veri. Il secondo. Per affrontare seriamente questo tema non basta intervenire solo sui produttori dei contenuti, magari enfatizzando il divario tra media mainstream e new media, come se i primi siano sempre e comunque collocabili nella sfera dei buoni e i secondi siano sempre e comunque collocabili in quella dei cattivi. Occorre sviluppare attenzione selettiva nei confronti di quei fruitori che contribuiscono alla diffusione virale di messaggi falsi o verosimili in base alla tendenza, sempre più marcata ormai, a ricorrere al “pensiero veloce” che, come evidenzia Daniel Kahneman, si differenzia dal “pensiero lento” poiché a basso impegno cognitivo e poiché frutto di atteggiamenti istintivi. Il problema perciò risiede nella difficoltà -torna qui il riferimento alla pigrizia intellettuale- a intraprendere percorsi di elaborazione concettuale completi, riflessivi, comparativi, ma anche diacronici e sincronici. Il terzo concetto chiave. Insieme alla distorsione volontaria, è utile prendere in esame anche quella involontaria, come per esempio la distorsione legata alle modalità di raccolta, selezione, gerarchizzazione e trattamento del materiale notiziabile. Quest’ultima è molto più pericolosa della prima, poiché è generalizzata e difficilmente superabile a causa della crisi dell’editoria, a stampa e radio-televisiva. I sintomi più evidenti della distorsione non intenzionale sono due: l’autoreferenzialità (specie del giornalismo) e la concorrenza omologante tra i media. L’invito a “vedere” la realtà che si intende raccontare coincide con l’invito rivolto agli operatori dell’informazione a sfuggire a quella logica che potremmo definire degli “arresti redazionali”, ma anche con quello indirizzato alla politica affinché rinunci alle parole vuote e insignificanti, all’economia affinché assuma una postura responsabile e alla sfera pubblica affinché si attrezzi per ospitare messaggi positivi, sottraendosi così alla dittatura della “negatività delle conseguenze”, volendo usare un espressione di matrice sociologica. Gli americani ripetono da tempo la frase (cinica, riconosciamolo) “bad news is a good news” perché sanno che ciò che interrompe la linea retta della normalità proponendosi come “deroga alla regola” colpisce l’attenzione del pubblico, generando ascolto memorabile. I criteri di notiziabilità, del resto, sono stati costruiti soprattutto in base a questo presupposto, rappresentando il piano empirico dell’albero epistemologico della teoria del Newsmaking. Tuttavia, tutto questo non giustifica la prassi diffusa di riconoscere solo alle cattive notizie il diritto di cittadinanza nell’offerta newsmediale. La necessità del recupero di letture della realtà più ampie e più inclusive rispetto alla dicotomia negativo/positivo è, perciò, del tutto evidente ed urgente.

Il messaggio di Bergoglio è un modo efficace e intelligente per affermare -qui la citazione dei primi incontri di Gesù sulle rive del fiume Giordano e del lago di Galilea- che la persuasione migliore è quella che si fonda sulle evidenze empiriche, sulla possibilità del coinvolgimento personale, sul falsificazionismo, come avrebbe detto Karl Popper. Non è tanto un “dire per essere creduti”, quanto un “essere creduti dopo aver dimostrato ciò che si è detto”. Con impegno, passione e convincimento. In questo contesto si inserisce anche il richiamo a considerare la comunicazione come un mosaico realizzato gradualmente ricorrendo a più tipologie di linguaggio: quello verbale rispetto al quale gioca un ruolo fondamentale il significante “parola” insieme o in alternativa al significante “immagine”; quello paraverbale rispetto al quale rileva soprattutto l’intonazione e l’intensità dell’eloquio; quello extraverbale fondato sulla gestualità, l’orientazione, la prossemica, le espressioni del volto e lo sguardo. Tutti elementi che garantiscono l’autenticità dello scambio posto alla base della comunicazione in quanto processo. E quindi la verità.

In definitiva, si ripropone nei ragionamenti fatti dal Papa il tema della necessità di ricercare un equilibrio (dinamico) tra la quantità delle informazioni e la qualità dell’informazione. Sembra un gioco linguistico, ma non lo è. Davanti all’overload informativo, trasformatosi durante l’emergenza pandemica in “infodemia”, non conta aumentare il flusso della comunicazione. Conta agire affinché verifica e capacità di discernimento diventino approcci diffusi. E naturali. Oggi più di ieri.  Ne va della coesione sociale. Per questo vale la pena di non confondere la comunicazione con la connessione. Siamo più connessi di quanto non lo fossimo in passato, ma siamo sicuri che riusciamo davvero a comunicare?

La comunicazione non è solo un trasferimento di risorse cognitive ed emozionali da un emittente ad un ricevente. E non è nemmeno la capacità di influenzare il comportamento del ricevente a seguito del trasferimento di conoscenza da parte dell’emittente. E’ molto di più. È condivisione. Verrebbe voglia di dire, pensando all’eucarestia, è “comunione”. Condivisione di senso e comunione di intenti.