La comunicazione politica nell’era Draghi. Stop allo schema binario

di Francesco Giorgino

Uno dei primi studiosi a prevedere che, nel passaggio tra il Novecento e il Duemila, i discorsi politici sarebbero stati costruiti secondo uno schema cognitivo di tipo binario fu il sociologo americano neo-funzionalista Jeffrey Alexander. Erano gli anni Novanta. L’idea di fondo ruotava intorno alla costruzione di una rappresentazione della politica in grado di restituire anzitutto il senso della distinzione tra un “noi” e un “loro”, tra buoni e cattivi, tra equi e iniqui, tra giusto e ingiusto, tra valore e disvalore. Quasi uno spartiacque preventivo grazie al quale collocare nella sfera pubblica mediata sé stessi e gli altri con l’intento di generare una percezione in linea con le differenti strategie di comunicazione e marketing politico adottate o adottabili. Da quel momento in poi, che in Italia corrisponde alla cosiddetta Seconda Repubblica, lo schema binario ha concesso poche deroghe alla rigidità con la quale era stato concepito e poi gestito nei suoi primi anni di vita.

Se il compito principale dell’interazione tra istituzioni politiche e istituzioni mediali è quello di determinare contemporaneamente effetti di priming (influenza), di framing (incorniciamento) e di agenda setting (segnalazione delle priorità tematiche), è evidente che un contesto meno conflittuale tra e dentro i partiti, come quello che dovrebbe accompagnare l’evoluzione del governo Draghi, comporti un ripensamento anche di tale struttura cognitiva. Una struttura per il cui tramite si è ricercato prima il consenso abilitante e poi quello confermante, come avvenuto con le dinamiche del web 2.0 e con l’uso dei social network da parte di partiti e leader politici.

Talmente frequente e radicato è stato il convincimento, almeno nel recente passato, che bisognava mettere in evidenza non tanto l’identità inclusiva, ovvero il senso di appartenenza ad una community in nome della ricerca delle ragioni del problem solving, quanto quella esclusiva, ovvero ciò che distingue un leader e un partito da altri leader e partiti, che il linguista e neuroscenziato George Lakoff, nell’intento teorico di rendere conscio l’inconscio e in quello più empirico ed utilitaristico di aiutare una parte politica a vincere, invitò i democratici americani a smettere di “pensare all’elefante” (simbolo dei repubblicani, ndr). La tesi, strutturata in alcuni libri pubblicati da Lakoff negli anni Duemila, ruotava intorno al principio in base al quale la sfida più stimolante è quella legata all’uso delle parole. E che, anche in base a questo presupposto, se si usano gli stessi significanti adoperati dai propri avversari si finisce per evocare le stesse idee, oltretutto ponendole al centro dell’attenzione pubblica e, quindi, rafforzandole. In questo modo si metteva in evidenza il ruolo determinante proprio di quegli schemi di pensiero che condizionano la produzione e la ricezione dei messaggi politici e naturalmente i nostri comportamenti. Uno di questi schemi è certamente quello binario. La polarizzazione è stata (e sotto molti versi lo è ancora) la cifra della transizione dal vecchio rapporto media-politica a quello alimentato all’interno dell’ecosistema comunicativo digitale e della società delle piattaforme. Essa ha resistito anche nell’epoca della de-ideologizzazione e delle micro-narrazioni individuali che, come previsto da Llyotard, avrebbero sostituito nel XXI secolo le macro-narrazioni sviluppate da ideologie e religioni nel XX secolo in base al format delle mappe concettuali.

Si è inaugurata da poco la stagione delle larghe intese e lo schema binario rischia di mettere in difficoltà quei comunicatori politici e istituzionali e anche quei giornalisti e intellettuali che non dovessero riuscire a separarsi da una simile logica o che dovessero considerarla persino come una condizione imprescindibile per continuare a fare il proprio lavoro. Poniamoci il problema, dunque, di come si può essere convincenti limitandosi a mettere in evidenza “chi si è” o “chi si vuol essere”, piuttosto che farlo attaccando continuamente gli altri e immaginando un avversario da combattere sempre e comunque.

Come sostenevo qualche riga più su, trattasi di una dinamica presente sia nel rapporto dialettico tra partititi con culture politiche differenti, sia tra le correnti interne agli stessi partiti. In relazione a quest’ultimo aspetto, le vicende degli ultimi giorni hanno documentato la presenza di significative tracce di schema binario dentro il Pd, tanto da aver indotto Zingaretti a preannunciare le proprie dimissioni da segretario dei Dem, e dentro i Cinque Stelle tra l’ala grillino-governista e quella che fa capo a Davide Casaleggio artefice nella giornata del 4 marzo del manifesto “ControVento” elaborato per smarcarsi dal gruppo dirigente del Movimento e provare a raccogliere delusi, ortodossi, espulsi, dissidenti, malpancisti. Tracce presenti, sia pur in misura più contenuta, anche nei partiti di centrodestra in ordine all’atteggiamento da assumere sui temi europei o con forti implicazioni europeiste.

Lo scivolamento delle principali dinamiche di storytelling politico da una narrazione incentrata solo sul leader ad una capace di far recuperare centralità soprattutto ai temi sui quali discutere e deliberare agevola la realizzazione di questo nuovo approccio fondato sul superamento, o almeno sull’accantonamento momentaneo, dello schema binario. È nel nome dei temi più che dei leader, degli oggetti politici narrativizzabili più che dei soggetti narrativi che si può rintracciare la chiave di volta e sollecitare un cambio paradigmatico utile al Paese.

A ben guardare, una simile prospettiva viene incoraggiata oltre che dalla composizione dell’attuale maggioranza (delle larghe intese), anche dall’esigenza di non disperdere l’attenzione sulle questioni cruciali per il futuro dell’Italia: vaccinazione, innovazione, sostenibilità ambientale, digitalizzazione, crescita economica, coesione sociale. Sono gli ambiti nei quali è utile e opportuno rinunciare alle contrapposizioni personalistiche per assecondare una logica in grado di valorizzare il merito dei singoli dossier, dopo aver provato a ricercare le soluzioni che uniscono, anziché solo quelle che dividono. A tal fine, di certo aiuterebbero i seguenti fattori: un’inedita disponibilità dei newsmakers ad accantonare le intonazioni da conflitto perenne e da “muro contro muro”; il coraggio di ridurre nel racconto politico la ricerca di un vincitore e di un vinto a tutti i costi; la voglia di non esagerare con la misurazione, quasi ogni giorno, del gradimento di leader e partiti.

Attenzione, tutto ciò non significa rinunciare ad esprimere il proprio punto di vista e a esercitare il diritto di critica, né evitare di manifestare le specificità delle proprie proposte programmatiche in una sana opzione dialettica tra e dentro i partiti. Non significa nemmeno omettere di comunicare la propria idea in ordine alla gerarchizzazione degli obiettivi da perseguire, fondendo attenzione a questioni di merito e attenzione a questioni di metodo. Significa, piuttosto, maturare la consapevolezza che occorre lavorare sulla diade “quantità-qualità” della comunicazione, adattando la prima agli interessi della seconda e non viceversa. Significa, altresì, tenere distinti i flussi della comunicazione politica da quelli della comunicazione istituzionale, anteponendo l’interesse nazionale a quello di parte, scegliendo con accuratezza i contesti, i tempi e i modi in cui e con cui comunicare. Significa puntare sui contenuti autentici e trasparenti.

La rivoluzione del buon senso di cui la politica ha bisogno coincide anche con la rivoluzione del buon senso della totalità degli attori sociali, dei comunicatori, dei marketer politici, dei giornalisti e di tutti coloro che contribuiscono alla costruzione e alla gestione della sfera pubblica mediata. Si commetterebbe un errore se non si risolvesse il problema del disallineamento sviluppatosi tra le modalità di comunicazione di Mario Draghi e quelle alle quali ci hanno abituato in questi anni molti leader ed esponenti di partito. Sarebbe un errore anche il non distinguere le forme di comunicazione interna al sistema della politica da quelle esterne, più orientate alla gestione della relazione cittadini-elettori.

La democrazia si fonda sul confronto, non necessariamente sullo scontro. E non è detto che la ragione sia più visibile in coloro che ricercano a prescindere la conflittualità.

 

(Credit foto di copertina: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri)