La conversione secondo Matteo

di Giovanni Orsina

La conversione di Matteo Salvini sulla via di Bruxelles è almeno per il momento l’effetto politico di gran lunga più importante del non ancora nato governo Draghi. Come di tutti i fatti politici di prima grandezza, se ne possono dare tante chiavi di lettura. Qui ne proporrò quattro: una tattica, una storica, una elettorale e una sistemica. Da un punto di vista tattico, Salvini ha incassato il suo primo successo dopo una lunga serie di sconfitte, dalle elezioni europee in poi. Certo, per lui come per Meloni la via d’uscita principale dalla crisi del governo Conte erano le elezioni. Una volta che il Capo dello Stato ha sbarrato quella strada e messo Draghi sul tavolo, però, il leader della Lega ha pragmaticamente deciso di provare a ottenere il massimo possibile da una soluzione non ideale. E quel massimo non è affatto poco: ha scongiurato la nascita di una “maggioranza Ursula” – Partito democratico, centristi, Movimento 5 stelle, Forza Italia – che ne avrebbe confermato la marginalità politica; ha avviato un processo di rilegittimazione agli occhi dell’establishment europeo e nazionale; e come vedremo meglio più avanti, ha messo in difficoltà M5S e Pd.

La mossa tattica è stata favorita dal mutamento storico sottostante. Certo, Salvini ha fatto un notevole salto mortale, rimangiandosi di colpo parole d’ordine di mesi e anni. Ma è anche vero che l’Unione Europea del 2021 non è quella del 2012 contro la quale aveva preso forma il suo anti-europeismo. Bruxelles non si presenta oggi come il luogo dell’austerità, ma della generosità. Restare sulle posizioni del passato significava continuare a combattere oggi la battaglia di ieri (che sarà magari quella di domani, ma domani è un altro giorno). Tanto più che la politica europea di Salvini ha avuto molto di simbolico, ma non troppo realistico: se per un’infinità di ragioni non si può uscire né dall’Ue né dall’euro, allora l’unica scelta sensata per un sovranista è difendere gli interessi nazionali restando all’interno del gioco. Basta tornare con la memoria alla fine del 2018, del resto, quando il populistissimo e sovranistissimo governo gialloverde trovò con la Commissione l’accordo per una rivoluzionarissimo deficit del… 2,04%.

L’ostilità simbolica nei confronti dell’Europa, tuttavia, un ruolo lo ha svolto. E veniamo qui alla terza chiave di lettura, quella elettorale. In questi ultimi dieci anni, per una parte consistente degli elettori della Lega, esasperati se non disperati, l’Europa ha rappresentato un capro espiatorio. E si badi: l’esasperazione non era del tutto ingiustificata, né – come insegna René Girard – i capri espiatori sono innocenti a priori. In quell’elettorato, tuttavia, sono sempre stati sovra-rappresentati anche i ceti produttivi principalmente ma non soltanto settentrionali, meno interessanti alle battaglie simboliche e più al contesto economico continentale. Appoggiando Draghi, Salvini ha scelto di privilegiare questa parte della base leghista. Ma i numeri sono numeri: gli altri non sono pochi, e bisognerà vedere se e quanto apprezzeranno la svolta, o se non preferiranno spostarsi su Fratelli d’Italia. E bisognerà pure vedere, sul medio periodo, quanto arrabbiato sarà il Paese all’uscita dalla pandemia.

La prospettiva sistemica, infine. La sinistra, non soltanto italiana, ha perduto da decenni le identità forti che ne hanno segnato la storia nel corso del Novecento. Alla disperata ricerca di un ancoraggio, si è allora appoggiata all’europeismo. L’europeismo è un’identità debole, però: per sconfiggere i nazionalismi ha decostruito le identità territoriali tradizionali, ma così facendo ha di fatto decostruito anche se stesso. A farla breve: l’europeismo ha bisogno di un nemico per poter prendere una forma un po’ solida e consistente, di un demone che gli dia una missione. Si capisce allora lo sconcerto del Partito democratico. E si capisce pure quello del Movimento 5 stelle, che dall’estate del 2019 ha, con grande fatica, tenuto insieme una fragilissima ragion d’essere proprio contro Salvini. Quel demone, quella ragion d’essere potrebbero essere scomparsi per sempre. E la svolta del leader leghista potrebbe allora favorire la trasformazione dell’intero sistema politico italiano.

(da La Stampa, 10 febbraio 2021)