La crisi di governo tra bisogno di politica e media logic. La comunicazione prima dell’incarico a Draghi

di Francesco Giorgino

Non è un mistero che tra politica e comunicazione il rapporto sia stato alternativamente conflittuale o collaborativo. Né lo è il fatto che nella storia del nostro Paese vi siano state stagioni nelle quali è stata la comunicazione a trasformarsi in politica e altre nelle quali è avvenuto l’opposto, con non pochi problemi in ordine alla tenuta delle chiavi interpretative utilizzate dagli scienziati sociali per lo studio degli equilibri più rilevanti delle democrazie liberali. Le dinamiche oppositive o complementari sono andate di pari passo, oltretutto, all’evoluzione dei modelli sociali e culturali e alla natura della domanda di politica proveniente dalla collettività. È questo il motivo per il quale nessun esercizio analitico è possibile prescindendo dalla necessità di processi di contestualizzazione.

L’impressione che si ricava dall’ultima crisi di governo è che la politica abbia avuto voglia di sottrarsi, sia pur momentaneamente, alla logica del primato della comunicazione. Non per convinzione, sia ben chiaro. Ma più verosimilmente per convenienza. Chi scrive ha sostenuto in più circostanze la tesi dell’irreversibilità della sovrapposizione, sviluppatasi specie negli ultimi anni, tra l’agire politico e l’agire comunicativo, almeno nel senso habermasiano del termine. Lo ha fatto fino al punto di mettere in evidenza i rischi che si corrono quando il decisore pubblico confonde l’intenzione con la deliberazione, l’annuncio con il provvedimento operativo. Una tesi confermata anche dalle evidenze empiriche di questi ultimi giorni, tra le quali vale la pena di ricordare le interviste rilasciate alla carta stampata dai leader politici, la partecipazione degli esponenti di partito alle trasmissioni televisive (molto seguite dal pubblico, in tutte le fasce orarie della giornata comprese quelle del day time), la centralità del ruolo degli opinionisti nei dibattiti a riprova della domanda di un giornalismo interpretativo più che rappresentativo, l’uso dei social network per alimentare la relazione con i propri follower e sempre con il fine ultimo di gestire il consenso confermante, oltre che quello abilitante. C’è, tuttavia, un elemento di parziale novità che arriva dalle doppie consultazioni al Quirinale e alla Camera. Esso coincide con il desiderio di rallentare l’avanzamento degli spazi di palcoscenico rispetto agli spazi di retroscena, per dirla con Goffman. Segnali sono arrivati in ordine all’adozione di parametri sia quantitativi, sia qualitativi. Una condizione messa in risalto dai numerosi touch point sviluppatesi tra le dinamiche della comunicazione politica e quelle della comunicazione istituzionale, anzitutto come conseguenza dello scivolamento del baricentro narrativo dai contesti di esternalizzazione delle leadership, ontologicamente polarizzanti e polarizzati, a quelli delle procedure formali e delle liturgie. Il riferimento non è certo al modus operandi del Colle, alle prassi costituzionali adottate durante le crisi di governo, alla decisione di Mattarella di conferire alla terza carica dello Stato un mandato esplorativo per verificare la consistenza della maggioranza uscente. Mandato che non ha avuto successo e che ha comportato come conseguenza la scelta di Mario Draghi. Il riferimento è piuttosto al ricorso allo strumento del “preliminare” del contratto di governo. Strumento utilizzato nel mentre tra i partiti si consumavano veti e contro-veti su quasi tutto, contenuti e incarichi.
È come se gran parte della politica avesse avvertito all’improvviso il bisogno di mettersi al riparo dalle difficoltà della rappresentazione oltre che dalla crisi della rappresentanza. E’ come se volesse riservarsi il diritto di lasciare qualcosa al di fuori della porta d’accesso alla sfera pubblica mediata, volendo usare il framework caro a Thompson. Diritto alla riservatezza della politica in controtendenza alla retorica dell’open government? Più che altro esigenza di riservarsi uno spazio per gestire interlocuzioni e mediazioni lontano dai riflettori che, come sempre, hanno creato nella messa in scena giornalistica vincitori e vinti.

La letteratura scientifica in materia di comunicazione politica, da Nimmo e Sanders a Mazzoleni, ha sempre evidenziato, spesso al solo fine di analizzare il tema dell’influenza dei messaggi sulla triade cognizioni/percezioni/decisioni, il sistema di relazioni esistente tra istituzioni politiche, istituzioni mediali e cittadini. Un sistema peraltro ad intensità variabile e a direzioni multiple, con implicazioni dirette anche rispetto alle opzioni dell’agenda building e dell’agenda setting. Con la crisi dei partiti e il consolidarsi delle leadership carismatico-comunicative, insieme con il flusso informativo dalla politica verso i media è aumentato anche quello dai media e dai cittadini verso la politica. Ad osservare le strategie messe in campo nelle ultime giornate dai vari leader, pur evidenziando le differenze di stile e di intonazione, emerge la tentazione di parlare al sistema politico più che ai cittadini. Quasi una forma di comunicazione interna che sfiora l’autoreferenzialità e che si distanzia non poco dal modello delle consultazioni in streaming del recente passato che tanto clamore suscitarono anche per il ricorso ai format del politainment. I mass media e i personal media sembrano essere stati funzionali al compimento di disegni tattici. I quali contemplano anche silenzi e manifestazioni di sobrietà. Un po’ per scelta e un po’ per mancanza di argomenti. Un atteggiamento quest’ultimo che stride con l’effervescenza comunicativa alla quale siamo stati abituati dalla turbo-politica nell’era della platform society. In questo senso possono essere interpretate le scelte fatte dal premier dimissionario (in silenzio stampa dal giorno delle dimissioni nella speranza di un reincarico), quelle dei vertici del Movimento Cinque Stelle (almeno fino alla indicazione di Draghi) e del Pd, ma anche quelle dei partiti del centrodestra, intenti in questa fase ad agevolare e accrescere la percezione dell’unitarietà della coalizione.

Non è un caso che i contenitori narrativi più utilizzati siano stati i quotidiani cartacei, nelle cui pagine hanno trovato diritto di cittadinanza contenuti concepiti più per essere recepiti e metabolizzati dal sistema che per agevolare la gestione dei processi di marketing politico, come avvenuto in precedenza. La determinazione di molti ad allontanare la prospettiva delle elezioni anticipate, così come la complessità e l’instabilità del quadro politico per ragioni sistemiche e contingenti, hanno indotto non pochi leader a muoversi in tale direzione. Gli ambiti della politica non sempre corrispondono a quelli dei media. E ciò in base ad una traiettoria concettuale che non sembra essere in contrasto con il principio del “governo del potere pubblico in pubblico” elaborato da Bobbio. C’è chi ha parlato di riedizione della Prima Repubblica, pensando alla differente gestione in questo frangente della media logic di Altheide.

Nella ricerca dell’equilibrio tra la polity (in quanto “ordinamento politico”), la politics (ovvero “i rapporti di forza tra i partiti”) e la policy (“le linee programmatiche e le decisioni assunte”) non può essere trascurata l’attenzione che si sta riservando ai temi. Lo stesso Presidente della Repubblica a conclusione delle consultazioni al Quirinale aveva ricordato che ciò che conta è la capacità del governo che nascerà di affrontare in modo efficace e tempestivo le tre emergenze causate dal Covid-19: sanitaria, sociale ed economica. Lo ha ribadito anche pochi minuti prima di render nota la notizia della convocazione al Quirinale dell’ex presidente della Bce. Anche questo richiamo può essere utile per comprendere la differenza che passa tra la comunicazione politica come “forma” e la comunicazione politica come “sostanza”. Avere questa consapevolezza aiuta a contrastare le molte distorsioni volontarie e involontarie presenti nell’attuale scenario politico e nell’ecosistema digitale.