La “diplomazia delle città”. Una nuova carta da giocare per la Presidenza italiana del G20

di Raffaele Marchetti

Oggi viviamo nel secolo delle città e dovremmo di conseguenza aggiornare le nostre mappe mentali. La realtà sta cambiando rapidamente mentre noi siamo fermi a una lettura Stato-centrica delle relazioni internazionali. Con la Pace di Westfalia del 1648, le città sono state espulse dal nostro orizzonte intellettuale dopo che per secoli erano state il fulcro della vita globale. Oggi le città tornano a guadagnare centralità, ma noi fatichiamo a prenderne atto perché ragioniamo ancora in termini westfaliani. Governo, enti locali e società civile del nostro Paese dovrebbero rendersene conto, specie in un momento in cui l’Italia ha assunto la Presidenza del G20, il principale foro per la cooperazione economica e finanziaria globale. Nell’ambito del G20, infatti, Roma e Milano ospiteranno nelle prossime settimane il gruppo di engagement Urban-20 (U20), fondato nel 2017 per riunire i sindaci delle principali città del pianeta e per farli interagire con i dibattiti tra i leader nazionali del G20. Il format U20 punta ufficialmente a “facilitare un engagement duraturo tra il G20 e le città, ad accrescere il profilo dei temi urbani all’interno dell’agenda del G20, a stabilire un foro affinché le città possano sviluppare un messaggio e una prospettiva collettivi e influenzare così i negoziati del G20”.

 

Protagonismo socio-economico delle città

Nel 2007, per la prima volta nella storia, il numero di persone che vivevano nelle città ha superato quello delle persone che vivevano nelle campagne. La popolazione globale concentrata nei centri urbani è passata dal 3% della popolazione totale nel 1800 al 14% nel 1900, poi al 40% nel 2000 e oggi – secondo i dati della Banca mondiale – è al 55% della popolazione totale, con la prospettiva di arrivare al 70% nel 2050. Gli scenari futuri includono alcuni conglomerati urbani mastodontici, mai visti nella storia dell’umanità. L’area metropolitana di Lagos, in Nigeria, dovrebbe raggiungere la cifra di 80-100 milioni di abitanti entro il 2100. Mexico City già oggi ha una forza di polizia composta da 100.000 individui, più numerosa delle forze di polizia di altri 115 Paesi. Negli ultimi 50 anni, il numero di Stati nazionali è raddoppiato per arrivare a 193, ma il numero delle città con più di 100.000 abitanti è cresciuto dieci volte nello stesso periodo, superando quota 4.000.

Oggi alcune delle nostre attività più importanti hanno luogo nelle città, tuttavia noi vediamo solo gli Stati come attori della politica globale. La crescita economica più intensa e gli esperimenti fiscali più innovativi sono realizzati in contesti urbani. Le metropoli influenzano la globalizzazione e a loro volta ne sono influenzate. L’economia globale, in particolare, ha reso le città degli hub cruciali all’interno di una rete di network globali che si espandono ben oltre i confini nazionali, o le vecchie divisioni come quella tra Nord e Sud o quella tra mondo sviluppato e in via di sviluppo. In tutti i Paesi, infatti, le città producono una percentuale maggiore della crescita economica rispetto alle campagne. Nel 2011, per esempio, Tokyo e Londra – con rispettivamente il 26,8% e il 20,3% della popolazione totale del Giappone e del Regno Unito – erano responsabili del 34,1% e del 26,5% del Pil dei propri Paesi. Le città in generale sono l’epicentro dell’economia globale, responsabili dell’80% del Pil globale. New York City, negli Stati Uniti, gestisce un bilancio pubblico che ammonta ogni anno all’incirca a 88 miliardi di dollari, più del bilancio di 120 Paesi di tutto il mondo. Nei centri urbani, inoltre, assistiamo a riforme politico-istituzionali, innovazioni sociali, proteste e rivoluzioni. D’altra parte, sempre nelle città, si sviluppano attività criminali, azioni terroristiche o di controguerriglia, o si verificano attacchi missilistici. Nelle grandi metropoli, inoltre, le pandemie si diffondono più facilmente. Per non dire del fatto che le città sono all’origine dell’inquinamento globale (l’80% delle emissioni di CO2 provengono da qui), così come delle trasformazioni ambientali più innovative tipo i giardini e gli orti urbani. Ancora: la produzione di conoscenza, la raccolta di big data, l’innovazione al livello tech nascono tutte da intense interazioni al livello cittadino. Le città, infine, sono punto d’incontro tra culture, religioni, identità. Insomma, le città sono il fulcro della civiltà e la culla del futuro.

 

Protagonismo politico delle città

La politica internazionale è fortemente influenzata da un numero crescente di città sempre più attive sullo scacchiere globale. Città che sviluppano reti di gemellaggi e progetti, che condividono informazioni, firmano accordi di cooperazione, contribuiscono a plasmare politiche nazionali e internazionali, forniscono aiuti allo sviluppo e assistenza ai rifugiati, competono nel marketing territoriale attraverso forme di cooperazione decentralizzata tra città. La decentralizzazione e la sussidiarietà giocano un ruolo importante nella creazione di quell’insieme di opportunità politiche che consentono l’internazionalizzazione dei centri urbani. Le città fanno oggi quello che i “comuni” erano soliti fare secoli fa: cooperano ma allo stesso tempo danno vita a una forte dinamica competitiva. Per questa ragione, se vogliamo comprendere davvero le dinamiche socio-politiche planetarie, dobbiamo avere due mappe mentali in testa, una Stato-centrica e una non-Stato-centrica. Accanto al modello westfaliano, nato nel XVII secolo, oggi è utile ricordare un’altra faccia della storia diplomatica, estremamente ricca e variegata, di cui furono protagoniste proprio le città. Dalle città dell’antica Grecia e dalla diplomazia di Atene fino all’esperienza rinascimentale italiana, con i corpi diplomatici e le missioni all’estero di Firenze. Grandi città-Stato come Chengdu, in Cina, o Venezia, in Italia, giocarono un ruolo eminente nello stabilire i termini delle relazioni commerciali tra le società del tempo. Dopo un’interruzione durata 300 anni, le città sono tornate e possiamo identificare alcuni esempi di questa nuova tendenza:

  1. Quando di recente il Presidente americano Donald Trump ha annunciato il ritiro del suo Paese dagli Accordi di Parigi sul Cambiamento climatico, una delle reazioni contrarie più vibranti è arrivata dai sindaci delle grandi città a stelle e strisce. Da New York City a Los Angeles, da Boston a Philadelphia, passando per Chicago, Seattle e New Orleans, 61 sindaci americani dichiararono pubblicamente che sarebbero rimasti vincolati agli Accordi di Parigi, promettendo di andare avanti e di lavorare assieme per ridurre le emissioni di CO2. I cosiddetti “sindaci del Clima” sono diventati così un attore politico a tutto tondo, assumendo una posizione dura rispetto al governo federale, implementando politiche in netto contrasto con l’orientamento nazionale. Inoltre, facendo riferimento a un accordo internazionale raggiunto dagli Stati, la loro azione ha avuto un impatto sull’arena internazionale.
  2. La diplomazia delle città può diventare così importante da spingere gli stessi Stati a politicizzarla e strumentalizzarla. In Cina per esempio, lo scorso anno, Li Xiaolin, Presidentessa dell’Associazione cinese del Popolo per l’Amicizia coi Paesi stranieri, dichiarò che “gli accordi di gemellaggio tra città giocano un ruolo importante per incoraggiare cooperazione e scambi tra città cinesi e straniere nell’ambito della Via della Seta (o Belt and Road Initiative-BRI, ndr)”. Le città cinesi al momento hanno 2.629 accordi di gemellaggio con città e province all’estero, in particolare accordi di gemellaggio con oltre 700 città di Paesi coinvolti nella Via della Seta. La sola Pechino è gemellata con 21 capitali di Paesi che hanno sottoscritto la BRI. La strategia di soft power è così decisiva da poter suscitare controversie. In Repubblica Ceca, per esempio, Pechino ha cancellato il suo gemellaggio con Praga dopo che il consiglio cittadino ceco ha approvato un accordo simile con Taipei. In Svezia, a causa del deteriorarsi delle relazioni bilaterali tra Stoccolma e Pechino, un numero di accordi al livello cittadino sono stati cassati. E così via.
  3. L’Italia stessa è protagonista di diverse forme di “diplomazia delle città”. Nel 2017, per esempio, l’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, si fece promotore di una missione ufficiale dei sindaci italiani per dare nuova linfa alla cooperazione con le autorità locali libiche. La cooperazione economica e tecnica al livello delle città avrebbe rafforzato una più ampia collaborazione nelle due società, alimentando a sua volta la stabilità sociale in un Paese immerso in una guerra civile, rendendo anche più agevole il controllo dei flussi migratori al livello nazionale. Questo tipo di cooperazione tra città, fra l’altro, è attivo ancora oggi. Non solo. Nell’estate 2020, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il suo omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier hanno inviato una lettera congiunta ai sindaci dei due Paesi, auspicando accordi di gemellaggio più numerosi e profondi. Secondo i nostri Presidenti, la diplomazia delle città – in un momento, peraltro, in cui si andavano rafforzando le relazioni bilaterali nel cuore dell’Europa (vedi il Trattato di Aquisgrana tra Germania e Francia o il Trattato del Quirinale tra Italia e Francia) – sarebbe potuta divenire il fattore trainante di un ulteriore ravvicinamento italo-tedesco.

 

La diplomazia delle città in sede U20, dalla teoria alla prassi

Le dinamiche della globalizzazione hanno accelerato una tendenza che porta a un ruolo sempre meno esclusivo degli Stati nazionali come attori delle relazioni internazionali. Nel sistema globale contemporaneo, come ormai noto da decenni, gli attori non statuali sono diventati protagonisti. Tra questi attori non statuali, vi sono quattro tipologie di maggior rilievo: la imprese multinazionali, le organizzazioni non governative della società civile, le autorità locali (incluse regioni e città), infine delle organizzazioni private o ibride che regolano settori specifici formulando degli standard. I mutamenti demografici ed economici associati al processo di globalizzazione, come già detto, sono tra i motivi principali che spiegano il boom della diplomazia delle città. Oltre a ciò, vi sono almeno due logiche diverse dietro l’attuale attenzione al ruolo dei centri urbani. In primo luogo, la logica dell’efficienza e dell’efficacia: un’abile governance urbana è vista – in particolare da sindaci animati da determinazione personale – come lo strumento più adatto per raggiungere una qualche efficacia al livello sociale in ragione dei suoi caratteri di immediatezza esecutiva e prossimità ai cittadini. Il management locale, le micro-pratiche e il principio di sussidiarietà incarnano un modello che enfatizza l’efficienza economica e lo sviluppo che scaturisce dalla decentralizzazione del potere. Poi c’è la logica della democrazia: una buona governance urbana è vista come lo strumento più adeguato per implementare l’ideale democratico; gli enti locali diventano un mezzo per raggiungere l’empowerment delle comunità e l’auto-determinazione democratica. La diplomazia delle città, infatti, può nascere anche da una pressione dal basso esercitata dall’attivismo dei cittadini, come nel caso delle città denuclearizzate. La diplomazia delle città, in qualche modo, connette direttamente i cittadini locali con le vicende globali, contribuendo a superare i deficit democratici a livello internazionale.

L’accresciuta rilevanza delle nostre città nella vita contemporanea del pianeta non è priva di sfide. Come mostrano i recenti esempi del referendum sulla Brexit o dell’elezione di Trump negli Stati Uniti, siamo di fronte a un crescente gap sociale, economico e culturale tra le città e tutto il resto (o le campagne) che può condizionare in modo decisivo gli esiti politici – nazionali e non – di una certa fase. La voce delle città, dunque, deve diventare più forte e chiara nell’arena internazionale, ma non a discapito delle voci di tutti gli altri che pure devono essere prese in considerazione per decidere il nostro futuro. In quest’ottica, in vista del prossimo vertice U20, ecco alcune raccomandazioni per minimizzare i rischi e massimizzare le opportunità di un maggiore coinvolgimento dei centri urbani negli affari globali.

  1. Migliorare la progettazione delle istituzioni domestiche. Concepire un processo istituzionale chiaro per progettare e monitorare la “politica estera municipale”, una strategia coerente e di lungo termine che definisca il ruolo internazionale della città (obiettivi, attori, strumenti, contenuti e partner). Dovrebbe essere aperto uno specifico ufficio per la “diplomazia della città”, con funzionari pubblici specializzati, col sostegno ulteriori di consiglieri esterni, think tank e altri attori urbani di rilievo da campi diversi come il mondo imprenditoriale, dell’istruzione e della cultura, la società civile, eccetera.
  2. Accrescere la consapevolezza sociale. Si tratta di diffondere, attraverso tutta la società, il riconoscimento del valore aggiunto di un engagement internazionale delle nostre città.
  3. Migliorare il coordinamento con lo Stato centrale. Rivedere le istituzioni civiche per consentire contatti permanenti con la diplomazia nazionale. Instaurare forme di coordinamento e collaborazione con gli altri livelli di governo (Stato centrale, regioni e province) per evitare competizione o sovrapposizioni inutili tra istituzioni.
  4. Accrescere il coordinamento con gli altri attori internazionali. Sarebbe auspicabile una cooperazione più approfondita con organizzazioni internazionali, multinazionali, organizzazioni non governative internazionali, media globali, think tank, eccetera.
  5. Accrescere il coordinamento con le controparti urbane, aumentando il livello di coinvolgimento in iniziative bilaterali – e soprattutto multilaterali – che assumano la forma di “reti di città”.