La forza del meno

di Andrea Prencipe

L’idea di innovazione intesa come combinazione di arti note e arti nuove è ben radicata nella ricerca accademica e nella pratica organizzativa: la distruzione creatrice dell’imprenditore schumpeteriano si poggiava sull’abilità dello stesso di combinare mezzi di produzione ovvero creare nuove forme organizzative; Steve Jobs sottolineava l’importanza del collegamento di puntini esistenti. Si innova collegando componenti e conoscenze già in essere attraverso nuove combinazioni – le cosiddette “innovazioni architetturali” che definiscono il modo in cui gli elementi interagiscono tra loro – oppure nuove componenti e conoscenze con vecchie combinazioni.

Ma siamo sicuri che aggiungere equivale sempre a migliorare? La storia sembra indicare di sì. E il futuro? Il velcro – sistema di chiusura uncino e asola – è un caso emblematico di una nuova combinazione di componenti esistenti. Alla metà del Novecento, l’ingegnere svizzero Georges De Mestral, dopo una passeggiata in campagna, si accorse che alla sua giacca di velluto si erano attaccati dei fiori. L’analisi al microscopio evidenziò che i calici dei fiori avevano degli uncini minuscoli che si erano incastrati sulle asole formate dai peli di velluto. Questo momento di serendipità sponse De Mestral a progettare il sistema di chiusura prima con il cotone, poi col più resistente nylon. Lo stesso termine “velcro” nasce dalla combinazione delle parole francesi velours, velluto, e crochet, uncino.

Le virtù della combinazione si riflettono anche nell’organizzazione dei processi innovativi. Già alla fine degli anni ’60, il progetto SAPPHO – uno dei primi studi empirici sull’innovazione industriale – aveva sottolineato l’importanza di organizzare team multidisciplinari per lo sviluppo di nuovi prodotti: la diversità e ricchezza di prospettive, l’eterogeneità dei domini disciplinari, le competenze non correlate, aumentavano la probabilità di sviluppare innovazioni originali e di successo. Se opportunatamente organizzati, i membri del team di superano la tendenza a sminuire possibili opportunità di nuove ricombinazioni e quindi danno spazio all’esplorazione combinativa.

la nozione di combinazione virtuosa di elementi è inoltre alla base del food pairing, il metodo di abbinamento alimentare che identifica le combinazioni degli ingredienti partendo dal loro profilo chimico che ne determina per esempio odori e sapori. Il principio di fondo è che gli alimenti si combinano virtuosamente quando condividono componenti aromatiche chiave. Il foodpairing ispira chef e buongustai per elaborare possibili combinazioni alimentari innovative che si basano sulle proprietà intrinseche di ingredienti di base.

La danza virtuosa tra vecchio e nuovo nelle combinazioni di elementi – anche cognitivi – esistenti rappresenta una strategia di introduzione del nuovo: Isaac Newton nei sui Principia presentò le leggi di gravitazione usando le leggi della geometria convenzionale; Charles Darwin dedicò la prima parte dell’Origine della Specie alla trattazione di temi convenzionali sulla selezione degli animali; la progettazione di prodotti commerciali segue spesso dinamiche al confine tra convenzionalità e novità. Le nuove idee, se incorporate in un quadro di convenzioni accettate, aumentano la capacità del pubblico di valutare ed adottare l’innovazione.

La nozione di combinazione intesa come miscela di più elementi di varia natura ha progressivamente assunto un’accezione positiva. Albert Einstein sosteneva che la combinazione è “la caratteristica essenziale del pensiero produttivo”.

Si noti però che tutti gli esempi di produzione scientifica, industriale o culinaria riportati finora considerano la combinazione con una dimensione intrinsecamente “additiva”. L’equazione “combinazione additiva = combinazione positiva” è radicata nel nostro modo di pensare ed agire. Un recente articolo pubblicato su Nature dimostra che gli esseri umani sono sistematicamente inclini a concepire e agire trasformazioni additive. La psicologa Gabrielle Adams, con alcuni colleghi dell’Università della Virginia, ha effettuato una serie di esperimenti per spiegare la nostra inclinazione a preferire l’addizione. L’attrattività dell’addizione, per esempio, è superiore quando le persone sono sotto “carico cognitivo”, cioè quando devono svolgere altri compiti nello stesso tempo, oppure quando il problema da risolvere non segnala immediatamente l’opportunità di utilizzare la “sottrazione” o comunque i limiti e i costi associati all’addizione.

Perchè siamo guidati da una logica additiva? Le motivazioni addotte dai ricercatori sono affascinanti: l’inclinazione additiva può essere una prova della presenza di un pregiudizio cognitivo – cultural bias – che informa il modo in cui inquadriamo e risolviamo i problemi. Come noto, i cultural bias si traducono in scorciatoie cognitive che automaticamente ispirano determinate azioni.

Se un simile pregiudizio cognitivo fosse ulteriormente suffragato empiricamente, potremmo spiegare perchè noi esseri umani abbiamo difficoltà ad affrontare le sfide che richiedono trasformazioni sottrattive, per esempio il cambiamento climatico. Posto che esistono altre concause – anche di natura socioeconomica – che frenano l’implementazione di approcci con effetti positivi nella risoluzione di sfide epocali, la nostra attitudine additiva rappresenta un freno naturale. Si pensi all’economia circolare e in particolare ai distretti circolari, soluzioni virtuose per l’abbattimento dell’impatto ambientale di produzioni tradizionali e per il recupero di materiali da risulta delle stesse. Tali soluzioni richiederebbero un frame sottrattivo per essere attuate, invece sono apprezzate sulla carta ma ricevono reazioni tiepide in termini di realizzazione di politica industriale.

A ben guardare, l’attitudine additiva può aver generato una dinamica nella semantica attuale che assegna automaticamente all’idea di combinazione una dimensione additiva. Diversità e inclusività – parole entrate giustamente nel nostro vocabolario – sono considerate positive in un’accezione additiva. Nonostante sembriamo tutti convinti che less is more, la path dependency semantica – generata dalla nostra inclinazione additiva – potrebbe essere l’ostacolo sulla strada che porta alla creazione di soluzioni semplici per sfide complesse.