La ripresa possibile è quella che intreccia “pubblico” e “privato”. Decisivo il ruolo della comunicazione

di Francesco Giorgino

Una delle scuole più celebri nello studio del rapporto tra media e società, la scuola di Toronto, elaborò nel secolo scorso la teoria del determinismo tecnologico. Una teoria in base alla quale, da Innis e McLuhan in avanti, si profetizzava che la tecnologia non si sarebbe limitata ad accompagnare i principali cambiamenti socioculturali, ma li avrebbe determinati. Un cambio di passo dal punto di visto del merito e del metodo che abbiamo visto ripetutamente nella transizione dal XX al XXI secolo.

L’ecosistema comunicativo digitale impone a tutti, Pubblica Amministrazione compresa, la ricerca di nuovi approcci, l’uso di nuovi strumenti, la scelta preferenziale a favore di nuovi assetti organizzativi, l’acquisizione di nuove conoscenze e la formazione di nuove competenze. L’innovazione tecnologica è stata talmente rapida e pervasiva che alcuni studiosi, come per esempio van Djick, hanno parlato di Platform society. Lo hanno fatto per enfatizzare la relazione ormai sistemica esistente tra le piattaforme online e le variegate strutture sociali. Si tratta di una nuova impostazione grazie alla quale qualunque attività umana (l’economia, la politica, la cultura intesa come “universo di conoscenze conoscibili” e come pratiche di significazione della realtà, la dimensione relazionale e persino quella antropologica) viene ripensata all’interno di una logica che non deve essere vissuta tanto come esito di una preoccupante dis-intermedizione, quanto come opportunità per una re-intermediazione o, se si vuole, per una “mediazione altra” rispetto al passato. Il punto è, anzitutto, quello di verificare come fare in modo che la maggiore “connettività” dell’era digitale si trasformi in maggiore “collettività” e cioè in maggiore e migliore “cittadinanza”, in un robusto senso comunitario, che riesca a superare la cultura del frammento e gli individualismi del nostro tempo.

Le piattaforme, come del resto tutti i mezzi di comunicazione (gli olds e i new media), non sono di per sé buone o cattive. È il loro uso quotidiano che può essere alternativamente buono o cattivo, utile o dannoso, efficace o ininfluente. Esse consentono di sviluppare più flussi di comunicazione: mantengono quello dei media mainstream ovvero il flusso one to many, ma nel contempo permettono dinamiche più in linea con le esigenze di una fruizione sempre più personalizzata e asincrona. Mi riferisco ai flussi many to many, many to one e one to one. Non è un caso che il sociologo Castells abbia coniato il neologismo mass self communication. Oggi, a differenza di ieri, tutti hanno la possibilità di parlare a tutti e a ciascuno. È una grande opportunità, se accompagniamo questo processo ad una giusta dose di responsabilità. Dose da sperimentare sia a livello individuale, sia collettivo.

Da più di un anno viviamo le difficoltà legate all’emergenza pandemica. Dobbiamo riconoscere che il digitale in linea generale e le piattaforme, comprese quelle di instant messaging più nello specifico, hanno assicurato forme di “socialità sostitutiva” in assenza delle quali l’obbligo del distanziamento fisico interpersonale avrebbe generato, almeno sotto il versante relazionale, conseguenze ancora più gravi di quanto sia già avvenuto.

In questa cornice si inserisce l’impegno dell’Italia in favore di un uso consapevole e responsabile delle piattaforme per agevolare, come annotavo in precedenza, il perseguimento di due obiettivi strategici. Il primo: ridurre le distanze tra Stato e cittadini, per aiutare da un lato la Pubblica Amministrazione ad informare in modo capillare gli utenti nell’ottica dell’open government, dall’altro per mettere i cittadini e gli stakeholders della Pubblica Amministrazione in condizione di dialogare con le istituzioni in modo non occasionale.  Il secondo: aumentare il valore percepito della Pubblica Amministrazione, mettendo famiglie, imprese, liberi professionisti, cittadini tutti in condizione di considerare il settore del pubblico impiego e più in generale quello delle istituzioni non come un ostacolo (spesso per colpa del peso eccessivo della burocrazia e dell’assenza di semplificazione), ma come un aiuto e un supporto. Non un problema, dunque, ma la soluzione al problema.

Come si possono ottenere questi due risultati? Di seguito, propongo una traiettoria analitica che contempla, prima, la segnalazione delle ragioni del cambio di paradigma sollecitato dal Governo Draghi e, poi, alcune direttrici di marcia che l’Italia considera prioritarie, unitamente alla condivisione di una policy complessiva sul tema oggi in discussione, a partire dall’Unione Europea.  Partiamo dalle ragioni del cambio di paradigma.

Brunetta, in quanto “Ministro del lavoro pubblico”, con passo spedito, sta creando i presupposti perché la Pubblica Amministrazione diventi più efficiente, moderna, competitiva, engaged. Ha varato un nuovo vocabolario: (a) come accesso per consentire il turn over e nuovi e qualificati ingressi; (b) come buona amministrazione per misurare le performance dei dipendenti pubblici, ma anche per valorizzare i principi di trasparenza ed efficienza; (c) come capitale umano per considerare, ad esempio, la formazione continua come uno degli investimenti più importanti da effettuare; (d) come digitalizzazione per ritenere le nuove tecnologie parte integrante del nostro modus operandi. Il primo atto pubblico del nuovo Esecutivo è stata la firma da parte del Presidente del Consiglio e del Ministro per la Pubblica Amministrazione con i Sindacati Confederali del Patto per l’innovazione e la coesione sociale. L’idea, senza nulla togliere alle ragioni di lavoratori autonomi, partite Iva, ecc. e senza trascurare il privato, è quella di far posare al pubblico la prima pietra per il rilancio del nostro Paese. È quella di ripartire dal pubblico affinché tutti ne beneficino. Lo stesso Brunetta in un’intervista rilasciata al Messaggero lo scorso 7 aprile ha annunciato nel dettaglio il suo piano, che ruota intorno al Next Generation Eu e che assume come punto di avvio di ogni percorso riformatore la capacità di creare una macchina dello Stato all’altezza della sfida eccezionale che ci attende. Per questo egli è partito da tre atti: riavvio dei contratti; firma del già citato Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione; sblocco del turn-over. Per Brunetta, in cinque anni devono entrare nella PA cinquecento mila nuovi profili. Si comincia da Sanità ed Enti locali: a loro verranno garantiti più ingressi.

Il quadro macroeconomico che fa da sfondo a questa impostazione, almeno per quanto riguarda l’Europa, non è roseo. Il Fondo Monetario Internazionale ha avvertito che la ripresa (stimata per quanto riguarda l’economia globale al 6% nel 2021, dopo il –3,3% del 2020) è ancora molto disomogenea, visto che Stati Uniti e Cina sono in crescita a differenza dei Paesi emergenti e del Vecchio Continente, che registra due mesi di ritardo sulla tabella di marcia. L’Istat, inoltre, ha calcolato che da febbraio 2020 allo stesso mese del 2021 in Italia è andato perso quasi un milione di posti di lavoro. Le persone occupate sono scese da 23.142.000 a 22.197.000 unità. Va sottolineato che in base ad un nuovo regolamento dell’Ue, è stata cambiata la rilevazione delle forze lavoro a decorrere dal primo gennaio 2021: i lavoratori assenti per più di tre mesi, infatti, non vengono più considerati occupati, a differenza del periodo precedente quando accadeva il contrario, qualora essi percepissero una retribuzione di almeno il 50%. Il riferimento è, evidentemente, a chi usufruisce della cassa integrazione: viene considerato o disoccupato, se sta cercando lavoro, o inattivo. E ciò anche se si tratta di dipendenti delle aziende, a tutti gli effetti.

È il modello pubblico-privato quello che può fare la differenza. Occorre agire contemporaneamente sia sul settore del pubblico impiego sia su quello del lavoro autonomo per tutelare commercianti, artigiani, liberi professionisti, ecc. Non servono politiche pubbliche frutto di contrapposizione tra questi due ambiti, ma visioni integrate, di sistema. Non avrebbe senso, del resto, muoversi sull’asse della contrapposizione, oltretutto, tra “garantiti” e “non garantiti”. Accrescerebbero le possibilità di trasformare l’emergenza economica anche in emergenza sociale.

In questo articolo abbiamo deciso di approfondire le linee programmatiche del pubblico ed è da qui che ripartiamo nel nostro ragionamento, con un focus specifico sul ruolo che può svolgere la comunicazione istituzionale. Arrivati a questo punto, possiamo approfondire le direttrici di marcia di questo disegno finalizzato all’implementazione del valore percepito della Pubblica Amministrazione, a maggior ragione in ottica di Recovery Plan.

La prima direttrice di marcia è quella del potenziamento dell’uso delle piattaforme social e di instant messaging da parte di Enti pubblici nazionali e territoriali. In Italia sono tanti ormai i Comuni, solo per fare un esempio, che usano con i cittadini oltre che Facebook e gli altri social network anche chat su Wathsapp e Telegram. Gli “uffici relazioni con il pubblico” si sono trasferiti su queste piattaforme, dove ad agire non è solo l’intelligenza artificiale (asset strategico per l’innovazione) ma anche persone in carne e ossa.  Grazie alla formazione di liste elaborate ad hoc è possibile potenziare il flusso di informazioni e di comunicazioni, in entrata e in uscita. In fondo, si tratta di una modalità nuova di misurazione della customer satisfaction e della customer care.

La seconda direttrice è quella della costituzione di un team di lavoro che all’interno della singola amministrazione si muove con l’intento di rendere sinergiche le strategie di comunicazione in-out e in-in, quelle di marketing (specie territoriale) e quelle di media relationship, di brand storytelling istituzionale e di content creation. L’Italia sta lavorando alla modifica della legge 150 del 2000 per potenziare nella Pubblica Amministrazione la logica della “comunicazione integrata” in modalità cross e trans-mediale. All’interno di una vera e propria communication room ritengo debbano operare fianco a fianco responsabili degli uffici stampa, portavoce dei vertici delle istituzioni, marketer istituzionali, data analyst, social media manager, storyteller, addetti alle relazioni con gli stakeholder, brand journalist istituzionali, addetti alla grafica, videomaker. È il sistema dei vasi comunicanti. Ogni contenuto deve essere l’occasione per perseguire sinergicamente gli obiettivi ai quali facevo riferimento in precedenza.

La terza direttrice si concretizza nella capacità di unire le tre prospettive che Jenkins indica nella sua teoria della convergence culture: interazione trasmissionale; interazione consultazionale (ad esempio l’accesso alle banche dati); interazione conversazionale per rendere il dialogo con i cittadini non un’opzione, ma l’opzione.

La quarta direttrice fa riferimento, invece, alla necessità di ridurre i rischi della disinformazione e combattere le fake news. Non ci sono solo notizie false in giro, ma anche notizie verosimili (più pericolose delle prime). Bisogna continuare a muoversi in direzione della neutralizzazione del ruolo dei produttori di contenuti fake, operare in stretto raccordo con i gestori delle piattaforme per policy più vincolanti nell’interesse dei cittadini, ma anche responsabilizzare gli utenti affinché evitino condivisioni di contenuti falsi o verosimili. Condivisioni fatte in base a quello che il Premio Nobel Daniel Kahneman chiama il “pensiero veloce”, ovvero il pensiero a basso impegno cognitivo. Un pensiero che accende e diffonde incendi virali.

La quinta e ultima direttrice di marcia si riferisce, infine, alla necessità di elaborare ed attuare progetti di media education in collaborazione con le scuole e le università. Bisogna continuare a lavorare da un lato per “educare ai media” e dall’altro per “educare con i media” i soggetti in età evolutiva, atteso che nell’era postmoderna la conoscenza viene trasferita non più solo da fonti formali, ma anche da fonti informali.

La comunicazione non è un hobby. È frutto di “sapere” e “saper fare”. È il risultato di conoscenze e competenze. Per puntare, specie nel periodo pandemico, alla verità (l’alétheia nel linguaggio filosofico) serve un approccio continuo e bilanciato tra gli interessi generali e quelli di parte. Verità e democrazia. Radicamento alla realtà e partecipazione. Equilibrio tra quantità e qualità. E, appunto, tra pubblico e privato. Una sfida difficile, non c’è dubbio, ma necessaria.