Le cinque donne simbolo dell’Inauguration Day di Biden

di Lucia Ritrovato e Alessandra Staiano

Le voci potenti delle pop-star Lady Gaga e Jennifer Lopez, i versi intensi della giovane poetessa Amanda Gordman, il giuramento solenne di Kamala Harris prima donna vicepresidente nella storia degli Stati Uniti nelle mani della giudice Sonia Sotomayor: l’Inauguration Day di Joe Biden si è distinto per la quantità e la qualità delle presenze femminili sulla spianata di Capitol Hill. Il 46° presidente USA per il suo insediamento ha proposto una narrazione all’insegna della “ricucitura” dei valori della democrazia americana dopo lo “strappo” rappresentato dalla stagione di Donald Trump. E in questa narrazione alle donne ha affidato un ruolo centrale.

Attraverso i volti e le voci delle cinque donne-simbolo dell’Inauguration Day, infatti, i valori richiamati dal discorso inaugurale di Joe Biden hanno preso sostanza incarnandosi in corpi, voci ed esperienze che hanno comunicato (prima e oltre le stesse parole pronunciate) di diversità, inclusione, opportunità, insomma di tutti gli ingredienti dell’american dream in salsa democratica. Scelte tutt’altro che casuali in quella che è stata a tutti gli effetti una “grande cerimonia dei media” a volere utilizzare una vecchia espressione coniata dai sociologi Daniel Dayan e Elihu Katz (1987) che individuarono proprio nel “media event” un vero e proprio format, all’epoca solo televisivo, con propri tratti distintivi. Format usato quando “la storia va in diretta”. Definiti “i giorni di festa della comunicazione di massa” i media events sono, infatti, avvenimenti di portata storica, non necessariamente politici, verso i quali si dirige l’attenzione nazionale e internazionale.

Oggi che il consumo delle news passa attraverso una molteplicità di canali, piattaforme social in primis, in un Paese dove, secondo il Digital News Report 2020 del Reuters Institute, l’on line è stato nel 2020 la prima fonte di informazione per il 72% della popolazione, seconda la TV che si è attestata al 59% (incalzata dai social al 48%) il concetto di media event resta ancora valido per interpretare una cerimonia come l’Inauguration Day. Lo è a livello “sintattico” perché l’evento interrompe il flusso della vita quotidiana e delle informazioni; a livello “semantico” in quanto tratta concretamente e metaforicamente aspetti “sacri” della vita di una comunità; a livello “pragmatico” in quanto implica la risposta di un pubblico ‘devoto’ disposto innanzitutto a prestare una particolare attenzione alla fruizione dell’evento mediale.

Il format “grande cerimonia dei media” viene distinto da Dayan e Katz in tre categorie corrispondenti ad altrettanti script di base relativi alle principali possibilità narrative del genere. I media events possono essere racconti di Competizione, Conquista o Incoronazione, che a loro volta vengono indicati come incarnazione delle tre tipologie di autorità delineate dal sociologo Max Weber (1946) quando afferma che la legittimazione politica si fonda rispettivamente su razionalità, carisma e tradizione. I due autori sgombrano il campo dall’idea che le cerimonie in politica abbiano a che fare solo con i regimi totalitari e sottolineano il loro ruolo di integrazione sociale anche in democrazia intuendo il peso sempre maggiore dell’agire comunicativo rispetto all’agire politico.

Non tutti i media events corrispondono perfettamente a una delle tre categorie. A volte si trovano a metà strada tra una e l’altra. Altre volte, come nel nostro caso, le tre forme sono strettamente interconnesse e la categoria in cui ritrovare un media event è tanto più significativa quanto più sono stati forti i tratti che hanno caratterizzato ciò che l’ha preceduto. Di maggiore impatto emotivo sono quelli che prevedono una Competizione iniziale (la campagna elettorale), poi una Conquista (l’elezione così fortemente contestata da Trump e i suoi sostenitori) e solo alla fine l’Incoronazione (la cerimonia di insediamento). Esattamente come nelle fiabe e nello schema ricostruito e analizzato per primo da Propp (1928), poi diventato la base delle riflessioni del semiologo Greimas più volte utilizzate dalle scienze narrative.

Rimanendo nel quadro interpretativo offerto da Dayan e Katz possiamo dire che Joe Biden, dopo avere giocato -tra campagna elettorale ed elezione- le carte della razionalità e del carisma (forse non esattamente il suo punto di forza soprattutto se paragonato al predecessore di cui è stato vice, ovvero Barack Obama), nell’Inauguration Day ha puntato tutto sulla tradizione proponendo una versione che rasserenasse gli animi e i toni dopo le sconvolgenti immagini dell’assalto a Capitol Hill da parte dei sostenitori di Trump, avvenuto pochi giorni prima dell’insediamento. Ciò con l’intento di offrire la sua idea di America in cui difendere il concetto di democrazia, rappresentata nel discorso inaugurale come “preziosa”, “fragile” attraverso la costruzione di “unità” sostanziale e non solo formale.

Tradizione, dunque, anche se importanti aspetti rituali sono saltati, non per volontà di Biden. Niente passaggio di consegne con il predecessore Trump che già giorni prima aveva annunciato la sua assenza all’insediamento di un Presidente di cui non riconosce la legittimità elettiva. Niente pubblico a causa delle stringenti disposizioni anti-Covid. Niente strette di mano.

Alle donne Biden ha assegnato il ruolo più importante nella cerimonia di insediamento. Scelte tanto più significative se si considera che uno dei tratti distintivi dei media events è che il significato dell’avvenimento è assegnato preventivamente dagli organizzatori e ad esso si adeguano gli altri soggetti coinvolti, media in primis. Al centro di tutta la narrazione dell’evento, infatti, per quanto sia Biden il Presidente da celebrare, c’è stata lei: la prima vicepresidente donna e afroamericana degli Stati Uniti d’America, Kamala Harris. Su di lei, su suo marito (il Second Gentleman come si farà chiamare sul suo account ufficiale Instagram) si sono concentrate le attenzioni di tutto il mondo e le speranze di migliaia di donne afroamericane e indiane (e non solo). Gli sguardi sorridenti, i pugni complici di saluto tra lei e Michelle Obama all’inizio della cerimonia hanno commosso il web così come l’atto del suo giuramento. Anche questo atto è stato scelto con tutta la cura che si riserva ad un momento destinato a passare alla storia. Harris ha giurato infatti nelle mani di un’altra donna.  Una giovane donna afro americana, di soli 22 anni, inoltre, ha ricordato al mondo intero, attraverso una sua poesia, che sì c’è “una collina su cui saliamo”, The Hill We Climb, ma anche che “ricostruiremo, ci riconcilieremo e ci riprenderemo”.

Nel trionfo delle parole, dei gesti, tutti nel segno del multiculturalismo e del rispetto della democrazia, nel non poco velato sostegno a tutto il movimento dei Black Live Matter, sono arrivate dirompenti le esibizioni delle star più amate: Lady Gaga e Jennifer Lopez. La prima cantando l’inno statunitense con una spilla d’oro a forma di colomba della pace. Raffinata e trasgressiva come sempre, entrerà (e resterà) di diritto nella storia degli Inauguration Day con il suo microfono d’oro e la sua interpretazione originale. A questa prima esibizione ha fatto seguito quella di Jennifer Lopez, impegnata in un medley composto da due brani altrettanto significativi: This Land is Your Land (Questa terra è la tua terra), un classico composto nel 1940 dal patriarca del folk Woody Guthrie, e America, the Beautiful (Bellissima America), confuso spesso con l’inno nazionale. Per togliere ogni dubbio sul fatto che il messaggio fosse rivolto soprattutto alle minoranze, la combattiva JLo ha anche pronunciato qualche parola in spagnolo invocando giustizia “para todos”.

Il grande ritorno delle super star, assenti in tutto il periodo trumpiano, è continuato anche nello speciale televisivo serale condotto da Tom Hanks e dal titolo Celebrating America, dove a trionfare, dopo Justin Timberlake e Demi Lovato, è stata la superlativa Kate Perry per il suo virtual concert davanti al Lincoln Memoria.

In chiave di semiotica narrativa aggiungiamo che nel racconto dell’Inauguration Day sono proprio le donne ad incarnare il ruolo degli “aiutanti magici” chiamati a collaborare alla buona riuscita dell’azione del protagonista (Biden). Ognuna di esse ha agito in un ambito (musica pop, cultura, politica, legge) e nella cerimonia ne è diventata il simbolo. Un segnale di netta discontinuità rispetto all’epoca di Trump.