Le conseguenze della fragilità della politica
di Giovanni Orsina
Nel secondo decennio del XXI secolo si è chiusa (forse) una fase storica rivoluzionaria durata quasi cinquant’anni. Se non partiamo da questa premessa, difficilmente potremo capire che cosa stia succedendo all’Occidente, alla democrazia e, più in generale, all’ordine mondiale. «Ohibò» – obietterà chi legge – «una rivoluzione nell’ultimo mezzo secolo? Ma è vero semmai il contrario: questi sono stati i decenni della fine della rivoluzione!». Sì e no: sono stati i decenni della fine della rivoluzione politica, ma pure del trionfo di quella antipolitica. Ed è la crisi di questa seconda rivoluzione, quella antipolitica, che stiamo vivendo oggi. Ma andiamo con ordine.
Il comunismo è stato la più importante e duratura utopia politica del Novecento, ma il suo tramonto ha cominciato a farsi visibile già negli anni Sessanta del secolo scorso. Il Sessantotto ha rappresentato l’estremo tentativo di rigenerarlo, a Ovest del Muro coi moti studenteschi e operai, a Est con la Primavera di Praga. Il fallimento di quel tentativo ha dato avvio alla fuga dalla politica come attività collettiva, ideologicamente fondata e finalizzata alla trasformazione del mondo. Gli anni Settanta sono stati così, nelle democrazie avanzate, l’epoca del «riflusso», del trionfo del privato, del declino dell’uomo pubblico. Nel blocco sovietico, il decennio in cui i dissidenti – Václav Havel, Adam Michnik, György Konrad – hanno teorizzato l’inutilità dell’impegno politico e la necessità che l’opposizione al regime fosse portata sul terreno etico.
Ma fuggire dalla politica non significa fuggire dall’utopia. Del resto, chissà se la modernità secolarizzata saprebbe vivere senza utopia. La spinta verso la costruzione di un mondo perfetto non si è esaurita, allora, ha soltanto imboccato altri percorsi: ha smesso di puntare all’emancipazione collettiva delle classi o delle nazioni per concentrarsi sull’autodeterminazione dei singoli individui, e per promuoverla si è affidata a strumenti non politici. A partire dagli anni Settanta si è affidata ai diritti umani, alle convenzioni internazionali, ai tribunali, alle corti costituzionali. Dagli anni Ottanta, al mercato. E infine al progresso tecnologico, alle istituzioni tecnocratiche, ai processi d’integrazione globale.
L’utopismo antipolitico ha raggiunto lo zenit negli anni Novanta. Non per caso, in quel decennio, in tante democrazie i partiti di destra e di sinistra si sono avvicinati al centro, la destra accettando i diritti, la sinistra il mercato. Non c’era più spazio per fare politica, insomma. Quando si parla di utopismo e di anni Novanta il primo nome che viene in mente è quello di Francis Fukuyama con la sua fine della storia. Ma Fukuyama ha avuto un successo planetario proprio perché ha saputo condensare lo spirito di quell’epoca, spirito che infatti ritroviamo, in forme diverse, in moltissime altre pubblicazioni uscite nello stesso torno di tempo.
Nelle pagine di quei libri si aggirano – se non altro in prospettiva – folle di Individui Globali felicemente sradicati, privi di identità precostituite e perciò liberi di costruirsi l’identità che vogliono, svincolati da gerarchie o rapporti di potere, non limitati da vincoli territoriali. Certo, in molti di questi libri ci si chiede pure che cosa ne sarà della politica e della democrazia, in un mondo cosiffatto. In genere però se ne auspica o profetizza vagamente la ricostruzione a valle della trasformazione epocale, ritenuta del resto ineluttabile, senza chiarire come di preciso la politica democratica si ricostituirà, infine. Nell’utopia antipolitica degli anni Novanta, invece, la democrazia e l’Occidente hanno finito per annegare. L’Occidente perché si è convinto che l’affermarsi di quell’utopia rappresentasse il suo trionfo, e di non essere quindi più necessario perché l’intero globo si era ormai occidentalizzato, o almeno era in via di occidentalizzazione. La democrazia perché, banalmente, gli Individui Globali non si addensano in un Demos né sopportano il Kratos.
L’utopia antipolitica è cominciata ad andare a male nel primo decennio del XXI secolo, con l’11 settembre prima, la Grande Recessione poi. Negli ultimi vent’anni ci siamo così resi conto dei suoi risvolti distopici: ce ne siamo resi conto lentamente, li abbiamo negati a lungo, e poi ce ne siamo sorpresi e per un po’ non li abbiamo capiti, perché nel frattempo ci si era anche atrofizzato il senso storico. Che cosa abbiamo fatto allora? Ovvio: abbiamo cercato di tornare alla politica. I regimi autoritari hanno tirato le briglie, soffocando la dialettica interna per poter essere più efficaci all’esterno. Le democrazie fragili e precarie sono scivolate verso l’autoritarismo. E nelle solide democrazie occidentali, come reazione alla dissoluzione dell’Occidente e della democrazia, è emerso il sovranismo.
Oggi, in conclusione, delle due l’una. O la crisi dell’utopia antipolitica dimostrerà di essere un semplice appannamento temporaneo, e il vento tornerà presto a soffiare nelle vele dell’Individuo Globale protetto dal diritto e nutrito dal mercato. Oppure le democrazie dovranno reimparare a fare politica. Con un Demos, un Kratos e un’idea di Occidente.
*Articolo pubblicato su La Stampa il 15/04/2021