L’Europa di Francesco. Metafore, parole chiave, simboli
La dialettica del consumo
Papa Francesco ha rivolto un interesse costante ai valori posti alla base della coesistenza tra i paesi dell’Unione Europea, una riflessione ripresa nei giorni scorsi con la lettera inviata per il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Unione Europea. La particolare attenzione riservata dal Papa al futuro dell’Europa si manifesta nell’impiego di una serie di parole chiave e metafore tanto inattese quanto dense sul piano semantico.
Fin dal discorso tenuto al Parlamento Europeo nel 2014 emerge la presenza di una semantica delle immagini dell’Europa che si manifesterà successivamente in numerosi messaggi: “accanto a un’Unione più estesa, più influente, sembra però affiancarsi l’immagine di un’Europa un po’ invecchiata e compressa, che tende a sentirsi meno protagonista in un contesto che la guarda spesso con distacco, diffidenza e talvolta con sospetto […] un’Europa nonna e non più fertile e vivace”. L’attenzione all’impatto delle parole si combina con la lettura delle dinamiche al fondamento dei fenomeni sociali. Il rischio del declino dell’identità europea nasce dal prevalere “delle questioni tecniche ed economiche al centro del dibattito politico, a scapito di un orientamento antropologico”, con il rischio di ridurre l’uomo a “semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo da utilizzare”. Questa crisi viene così sintetizzata nell’espressione cultura dello scarto, con la quale il Papa indica una prospettiva consumistica sull’esistenza talmente consolidata (“cultura”) da produrre come effetto la perdita del senso di responsabilità nei confronti di chi è fragile. Un distacco dalla relazione con l’altro che Francesco definisce, sin dal viaggio a Lampedusa del 2013, con un’azione di efficace creatività linguistica: la globalizzazione dell’indifferenza. “Chi viene escluso, non è sfruttato ma completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori dalla società”. “Scarto” viene usato in modo letterale, associato ad altre parole della stessa categoria semantica (“spazzatura”, “avanzo”), rivelando l’azione radicale di esclusione e non di semplice marginalizzazione. L’invecchiamento dell’Europa è l’esito di un conflitto tra il diritto all’esistenza e la sua negazione, tra persone (“i fratelli”) e cose (“il consumismo”, “il denaro”)
Una memoria condivisa
In molti discorsi il Papa ricorre a una vera e propria semantica dello spazio, illustrando la tensione tra centro e margini, inclusione ed esclusione, appartenenza e rifiuto. In occasione del conferimento del Premio Carlo Magno (2016), Francesco si rivolge nuovamente all’Europa nei termini di un attore antropomorfo, dotato di anima; ritornando sulla metafora della nonna, richiama l’opposizione tra spazio da dominare e spazio come luogo dell’incontro a cui corrispondono modi di esistenza inconciliabili: immobilismo vs dinamismo, sterilità vs fertilità. Emerge qui la figura della trincea, simbolo di un conflitto permanente, senza vincitori, cui si lega un’altra parola chiave: memoria. L’Europa che si trincera rifiuta di riconoscere i drammi della storia recente, alla chiusura dello spazio geografico corrisponde la rimozione dei valori fondanti l’identità collettiva, un rischio dalle conseguenze drammatiche che esige di rivolgere nuovamente lo sguardo al passato. La memoria diventa così trasfusione, restituendo l’immagine dell’Europa come un corpo fragile, da curare. Richiamare la centralità della memoria consente inoltre a Francesco di rievocare il sogno dei padri fondatori di una coabitazione fondata sulla solidarietà, un’urgenza resa nuovamente tramite figure dell’agire spaziale: “cercare strade alternative”, “costruire ponti e non muri”, “porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate”. Questo genere di azioni è funzionale alla realizzazione del motto dell’Unione Europea “Unita nella diversità”, un obiettivo che si traduce nella costruzione di una casa comune in grado di garantire l’unione armonica delle differenze, di fare fronte alle “ombre di un mondo chiuso”.
L’uso delle passioni
L’attitudine a sfidare il senso comune delle parole si rivela anche nell’uso delle passioni nei discorsi, come nel passaggio in cui il Papa invita a superare un’interpretazione stereotipata della speranza: “La speranza è come la brace sotto la cenere, aiutiamoci con la solidarietà soffiando sulla cenere, la speranza, che non è semplice ottimismo, ci porta avanti, la speranza dobbiamo sostenerla tutti, è nostra, è cosa di tutti, per questo dico spesso anche ai giovani non lasciatevi rubare la speranza. Dobbiamo anche essere furbi, perché il Signore ci fa capire che gli idoli sono più furbi di noi, ci invita ad avere la furbizia del serpente con la bontà della colomba”. La speranza non è l’attesa incondizionata di una realtà migliore. Al contrario, è un sentimento intenso, vivo (una “brace”) che richiede di essere alimentato, che consente di aspirare a un cambiamento a patto di aderire a un programma di azione comune: la solidarietà. Per sconfiggere l’antagonista (l’idolo denaro), occorre riconoscerne la forza astuta, per indebolirlo bisogna guidare il proprio desiderio con la furbizia, combinando qualità distinte (mantenersi “colomba” acquisendo la scaltrezza del “serpente”).
Il distacco delle istituzioni
Grande attenzione è rivolta al distacco percepito tra le istituzioni e il quotidiano delle persone, in particolare di chi vive in condizioni di estremo disagio causate in primo luogo dalla guerra. Questo allontanamento nasce dall’incapacità di assumere il punto di vista dell’altro. Il Papa invita ad accogliere la legittimità del punto di vista dei migranti, degli emarginati, dei giovani europei ai margini del mercato del lavoro. Da qui l’attenzione riservata al dialogo, uno dei pilastri di un nuovo umanesimo europeo: “se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo […] La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido”.
Per Francesco le parole sono azioni e per “aggiornare l’idea di Europa” occorre smascherare l’uso manipolatorio del linguaggio. Nell’omelia pronunciata nella santa messa per i migranti (2019) Francesco denuncia l’operazione che si nasconde dietro espressioni consolidate e discriminatorie: “sono persone, non si tratta solo di questioni sociali o migratorie!” L’invecchiamento dell’Europa si manifesta così in un linguaggio incapace di fare tesoro dell’insegnamento di San Benedetto, patrono d’Europa, di “rimettere al centro il senso della persona”, nella proliferazione di un dibattito che sostituisce gli uomini con i numeri: “Non ci sono i cittadini, ci sono i voti. Non ci sono i migranti, ci sono le quote. Non ci sono lavoratori, ci sono gli indicatori economici. Non ci sono i poveri, ci sono le soglie di povertà. Il concreto della persona umana è così ridotto ad un principio astratto, più comodo e tranquillizzante”.
Il contagio della speranza
L’attenzione all’Europa si manifesta con forza durante la crisi generata dalla pandemia, in particolare nel messaggio Urbi et Orbi in occasione della Pasqua, celebrata in una basilica vuota. La cerimonia diviene l’occasione per lanciare un nuovo appello alle istituzioni comunitarie: “indifferenza, egoismo, divisione, dimenticanza non sono davvero le parole che vogliamo sentire in questo tempo”.
Per generare il cambiamento c’è ancora bisogno di sfidare il senso comune, spingersi fino a prefigurare il senso positivo del contagio.
È il contagio della speranza: «Cristo, mia speranza, è risorto!». Non si tratta di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non “scavalca” la sofferenza e la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio esclusivo del potere di Dio.
Articolo precedentemente apparso su Luiss Open il 5 novembre 2020