L’immanenza digitale

di Mauro Calise

Per provare a ricostruire la nuova identità digitale che concili naturale ed artificiale è fondamentale un taglio interdisciplinare dell’analisi: filosofia, antropologia, teologia, economia, ciascuna obbligata a ripensarsi, ridefinirsi in relazione alla tecnologia. Ecco un’analisi del volume “Etica digitale” a cura di Marta Bertolaso e Giovanni Lo Storto.

Dieci anni fa, di questi giorni, eravamo col fiato sospeso ad aspettare che dal conclave uscisse la fumata bianca. Un alto prelato, in Tv, fece autocritica coram populo. Un mestiere che i politici laici ancora non hanno imparato. Disse – più o meno – la Chiesa ha sbagliato. Pensavamo che la comunicazione fosse un fattore importante del nostro tempo. Ma la comunicazione è il nostro tempo. Pochi giorni, e papa Francesco avrebbe ipnotizzato il mondo. Una decina d’anni – come volano di questi tempi le ere! – e c’è stato un cambio della guardia. Parlando con un dirigente pubblico che si occupa della materia, mi ha detto senza mezze parole: il digitale non fa, è. Come Dio. È immanente nel nostro tempo. Sulla bocca di un ingegnere informatico, ecco la fusione fredda tra digitalizzazione e Zeitgeist. Il cambio di paradigma è servito.

Per entrare nel nuovo ecosistema, si moltiplicano avvisi ai naviganti, mappe, guide e cavalli di Troia. Per lo più accomunati da un anelito, che è al tempo stesso il loro limite: aiutarci a orientarci e ad usare, al meglio per noi, gli strumenti e gli ambienti di cui si compone la nuova galassia, il cyberspazio. Questo libro sceglie, invece, una prospettiva ontologica. Obbligandoci a interrogarci su quello che il digitale è nel rapporto con la condizione umana. Un manifesto che il titolo enuncia senza veli. Etica digitale. Verità, responsabilità, fiducia nell’era delle macchine intelligenti (a cura di Marta Bertolaso e Giovanni Lo Storto, Luiss University Press, pp. 182) non è un testo di facile lettura. Parla il linguaggio degli specialisti, che è – mai come in questo caso – una scelta di trasparenza. Perché mette in chiaro il paradosso epistemologico di questa nuova era. Essere tutti precipitati in una nuova condizione esistenziale cui non possiamo in alcun modo sfuggire e della quale, tuttavia, ci sfugge il senso e il significato. Per provare a ricostruire la nuova identità digitale che concili naturale ed artificiale, il passaggio obbligato è il taglio interdisciplinare dell’analisi. Filosofia, antropologia, teologia, economia, ciascuna obbligata a ripensarsi, ridefinirsi in relazione alla tecnologia.

Il merito dei curatori è nell’aver saputo tenere sempre evidente il fil rouge che deve essere il nostro rovello nell’addentrarci in questo labirinto: la sostenibilità etica dello sviluppo incontenibile del digitale. Se l’algoritmo diventa il cervello di ogni processo decisionale, come evitare che le valutazioni diventino, in re ipsa, prigioniere del formulario in cui le informazioni vengono immagazzinate? Col risultato che «ciò che non è gestibile sotto il profilo informatico, non esiste (sulla falsariga del noto brocardo quod non est in actis non est in mundo)» (p. 77). Una prospettiva che la superfetazione e ubiquità delle architetture di intelligenza artificiale non fa che rendere più potente e, al tempo stesso, incontrollabile. Rendendo sempre più evidente il nesso e motore weberiano della colonizzazione digitale del pianeta. Se è vero – nella metafora di Theodore Lowi – che la burocrazia è il primo – ed ultimo? – computer, non sorprende che sia il diritto a detenere le chiavi dello sviluppo informatico. A partire – citando il testo seminale di Lessig – dal suo linguaggio fondativo, il codice.

Ne consegue che l’ultima spiaggia, la più temeraria e temibile, sia quella della personalizzazione giuridica delle azioni robotizzate, istituendo «normativamente una ‘personalità elettronica’ (electronic person) da attribuire ai sistemi (più complessi ed evoluti) di IA, che in tal modo verrebbero ad avere una propria soggettività giuridica, un proprio patrimonio e una propria responsabilità» (p.84). Una proposta passata di recente al vaglio del Parlamento europeo e, per il momento, rigettata tra molte esitazioni. La mente – storica – non può che riandare allo scontro che scandì, nell’America dell’Ottocento, l’emergere della corporation a istituzione cardine del paese. E, nel secolo successivo, del pianeta. Un’ascesa la cui chiave giuridica fu la responsabilità limitata, la stessa prerogativa distintiva della supremazia statale. E che oggi si ripropone come architrave della rete social grazie alla quale – da Amazon a Google a Facebook – i titani dell’ICT controllano i nostri profili, gli avatar attraverso cui veniamo digitalmente datificati.

Riportandoci bruscamente all’interrogativo morale che guida il libro, e che Sebastiano Maffettone riprende nelle sue conclusioni: «se l’esperienza diventa dato e il dato diventa profitto, cambia il senso dei rapporti umani» (p.148). E cambia il senso della democrazia, come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. L’accumulazione del profitto si salda direttamente alla manipolazione del consenso. Il legame che fino a poco fa apparteneva alla sfera della comunicazione diventa costitutivo – immanente – del nuovo ecosistema digitale: «in altre parole, passeremmo da Berlusconi a Google, Facebook ed Apple» (p.153). Con l’aggravante che il quarto potere diventa invisibile, impalpabile. Il digitale non esiste, è.

 

Articolo pubblicato su Luiss Open il 18 maggio 2021