Napoli, Roma, Milano. Quando uno striscione resta nella storia

di Domenico Bonaventura

La potenza del calcio, la sua abilità ammaliante, la sua capacità di emozionare. Si sprigionano in una giocata, in una rabona, in un dribbling. In un assist geniale, in un doppio passo, in un’intuizione all’improvviso, che nessun altro è capace di avere.

Fuori dal rettangolo di gioco, però, spesso è tutto un mare di parole, al netto di silenzi stampa di matrice medievale, e quindi fuori dal tempo, oltre che fuori luogo. A regalarci qualche ragione per sorridere, quando non per ridere a crepapelle, sono spesso i tifosi.

A partire dalla rubrica settimanale che con grande successo tiene all’interno di “Striscia la notizia”, nel 2004 Cristiano Militello ha raccolto per Kowalski Editore foto e testi di centinaia di striscioni, inquadrandone la genesi nel contesto della rivalità campanilistica, ingrediente fondamentale di un calcio sentito, espressione delle culture popolari che riempiono lo Stivale, ma sempre sano e sportivo.

Oggi, 10 maggio, non posso non partire dallo striscione probabilmente tra i più famosi in assoluto. Portato spesso ad esempio di come un messaggio, pur necessariamente breve e conciso, riesca non solo a restituire un concetto, ma ad allargarsi fino a racchiudere tutta la grandezza dell’evento a cui si riferisce. Dico che non possiamo non partire da qui perché siamo andati fino a trentaquattro anni fa, al 10 maggio 1987. Una data che per Napoli ha e continuerà ad avere il sapore del Natale e che ha portato anche alla nascita di prodotti di tipo pubblicistico: canzoni, trasmissioni televisive, libri. Si pensi a “Ti racconto il dieci maggio” (Edizioni Cento Autori), cinquanta pagine in cui Maurizio de Giovanni parla dell’attesa spasmodica, dei riti scaramantici durante la gara con la Fiorentina – in cui, tra l’altro, un San Paolo pazzesco “tiene a battesimo” Roberto Baggio – e del ritrovamento a Sorrento di un amico, smarrito nell’ubriacante dopo partita.

Il primo Scudetto degli Azzurri è una cavalcata in cui è possibile riconoscere molti aspetti di una campagna elettorale: un leader incoronato, riconosciuto e rivoluzionario; uno schema binario (nella circostanza Sud contro Nord) secondo quello che descrive Carl Schmitt; dopo la vittoria, festeggiamenti da parte dei sostenitori (che in questo caso si allungano giusto per qualche settimana). Nel caos in cui si ritrova la città partenopea, c’è chi si ritaglia tempo e modo per dedicare un pensiero solidale a coloro che, passati a miglior vita, non hanno potuto godere di questa gioia incommensurabile, attesa per oltre sei decenni. Accanto al cancello del Cimitero di Poggioreale, il più grande della città, viene affisso uno striscione, naturalmente scritta bianca su sfondo blu: “E nun sanno che se so’ perso”. Sette parole che si consegnano immediatamente alla Storia: a detta di moltissimi appassionati di calcio (ma non solo), è lo striscione più geniale che sia mai stato partorito. Una frase nel più puro stile napoletano, che riesce a giocare su quel filo sottilissimo che si sviluppa tra il sacro e il profano, tra il serio e il faceto, mantenendosi in equilibrio sul bastone dell’ironia.

Portandomi geograficamente un po’ più a Nord, mi fermo all’Olimpico di Roma e a un’altra data simbolo, stavolta più recente, dello sport più amato dagli italiani. Il 28 maggio 2017, Francesco Totti dice basta col calcio giocato. La Roma giallorossa è tutta in lacrime, e anche qui a “dettare l’agenda” dello stato d’animo collettivo, durante e dopo la gara col Genoa, è l’emozione. Stavolta non un’emozione dettata dalla gioia, bensì dalla tristezza di assistere alla fine della carriera di uno dei più grandi calciatori italiani di sempre. E proprio su questo fil rouge si muove il “due aste” che un ragazzo mostra orgoglioso in Tribuna Tevere: “Speravo de morì prima”. Una scritta che fa il giro del mondo – d’altronde, oggi, rispetto al 1987, ci vuole davvero un attimo – e che addirittura viene scelta come titolo della serie tv che nel 2020 Netflix dedica al capitano romanista. La potenza di un messaggio che nelle intenzioni dell’autore vuole solo esprimere uno stato d’animo e che invece diventa iconico della malinconia di un popolo, di una tifoseria accomunata da uno stesso, enorme dispiacere.

Un classico caso di commistione tra un ambito specifico e l’intrattenimento. In questa circostanza, possiamo dire che anche il pallone ha dovuto piegarsi, suo malgrado, alle logiche mediali e mediatizzate. Considerata la portata della serie tv, si può sostenere che questo episodio di “footballtainment” sarebbe ugualmente stato realizzato, anche senza questo striscione. Eppure, scegliere quel breve testo come titolo della (seguitissima) serie tv può essere visto anche come un modo per far sentire i tifosi coinvolti in prima persona, anche per l’attesa che si era creata intorno a essa.

Proseguendo nel mio viaggio e “rotolando verso Nord”, per fare il verso ai Negrita, faccio tappa a San Siro, che spesso nei derby della Madonnina regala (regalava) coreografie di un certo livello. “Interista diventi pazzo” (2007) è quella che a mio parere merita maggiore attenzione. Una curva intera disegnata con il celebre Urlo di Munch, che prende in giro i “cugini” nerazzurri a digiuno di vittorie da molti anni. Un’opera d’arte, tra le più famose al mondo, riutilizzata quindi in chiave ironica per dare quel colore che accompagna le partite di cartello, per metterci quel tocco di campanilismo che, ancor di più, caratterizza le stracittadine.

Il calcio sarà pure uno sport popolare, ma quando riesce a unire genialità e cultura di comunità tocca vette altissime.