Perché giovani e capitale umano saranno al centro dell’agenda Draghi
di Luciano Monti
Lo scorso 3 febbraio, in meno di due minuti e mezzo di dichiarazioni alla stampa in cui diceva di accettare l’incarico attribuitogli dal Presidente della Repubblica per formare un nuovo Governo, Mario Draghi ha fatto un riferimento alle “risorse straordinarie” del programma europeo Next Generation Eu, aggiungendo subito dopo: “Abbiamo l’occasione di fare molto per il nostro Paese, con uno sguardo attento al futuro delle giovani generazioni”. Si tratta dell’ennesima conferma di un’attenzione che l’ex banchiere centrale ha sempre dedicato al tema dei giovani e dell’importanza del loro capitale umano per una società che abbia per obiettivo lo sviluppo, non solo economico. “Quale Paese lasceremo ai nostri figli?”, si chiese Draghi nel 2011, nel discorso di commiato da Governatore della Banca d’Italia. Mentre proprio nelle sue prime Considerazioni finali al vertice di Palazzo Koch, nel 2006, aveva detto: “Una crescita stentata alla lunga spegne il talento innovativo di un’economia; deprime le aspirazioni dei giovani; prelude al regresso; preoccupa particolarmente in un Paese come il nostro, su cui pesano un’evoluzione demografica sfavorevole e un alto debito pubblico. È grave lo spreco causato dal basso impiego del segmento più vitale, più promettente della popolazione”. Un’attenzione mai scemata nemmeno negli otto intensi anni alla guida della Banca centrale europea, o nelle rare apparizioni pubbliche che hanno seguito quella fase, come notato da Alberto Orioli (“I giovani il suo vero partito”, Sole 24 Ore, 6 febbraio 2021).
Esiste una questione generazionale in Italia? Lo dicono i numeri
D’altronde gli squilibri tra generazioni nel nostro Paese sono così macroscopici da non poter sfuggire all’attenzione di uno statista, teoricamente più interessato al lungo periodo che non alla prossima prova elettorale. Di seguito, qualche dato.
- Il sistema educativo italiano non riesce a trattenere molti dei giovani studenti per svilupparne le conoscenze: nella fascia 18-24 anni, un buon 13,5% di loro non ha completato il ciclo di istruzione secondaria superiore.
- Per quel che riguarda la formazione universitaria, il 40% degli Europei di età compresa tra i 30 e i 34 anni è laureato, un valore che invece scende sotto il 35% in tutte le Regioni italiane (dato Eurostat)
- Lo stesso sistema educativo non riesce nemmeno, in molti casi, a fornire le competenze richieste nel mercato del lavoro da enti e imprese (il cosiddetto mismatch), né quindi a garantire un’occupazione ai nostri laureati: nell’Unione europea l’81,6% degli under 35 con un diploma o una laurea ha un lavoro; tre Regioni italiane occupano gli ultimi posti in questa classifica di Eurostat, in Sicilia addirittura solo il 27,3% degli under 35 con diploma o laurea è occupato.
- I NEET (acronimo che sta per Neither in Employment or in Education or Training) nel 2019 – secondo l’Istat – si attestavano a 2 milioni, tutti under 30, e nel terzo trimestre del 2020 sono già aumentati di più di 100 mila unità. Se si considerano poi anche gli under 35, il dato supera le 3 milioni di unità.
- Il tasso di disoccupazione in Italia degli under-25 è passato dal 26,6% dell’agosto 2019 al 29,7% del dicembre 2020. Tre punti percentuali di differenza. E, si badi bene, dobbiamo considerare che ancora vige il cosiddetto blocco dei licenziamenti.
- Per quanto riguarda il reddito, secondo l’Indagine straordinaria sulle famiglie italiane effettuata da Banca d’Italia lo scorso anno, fra i 18-34enni intervistati, il 60% dichiarava una diminuzione consistente del proprio reddito. Il 21,2% di questi sosteneva di aver perso più del 50% del proprio reddito mensile.
- L’indice del Divario generazionale, calcolato dalla Fondazione Bruno Visentini, non è ancora tornato ai livelli che precedevano la crisi economico-finanziaria del 2008. Monitorando 13 domini e 36 indicatori, l’Indice in questione misura quanto sono grandi gli ostacoli allo sviluppo personale dei giovani. Per esempio, tenta di quantificare la difficoltà con cui i giovani riescono a varcare tre “porte” simboliche: quella della casa dei genitori, lasciata sempre più tardi; quella di un posto di lavoro che garantisca un’occupazione con qualche sicurezza; quella di un ospedale in cui mettere al mondo un figlio o una figlia. Facendo 100 il valore dell’Indice del Divario Generazionale nel 2004, il suo valore è schizzato a 134 all’indomani della lunga crisi economica iniziata lo scorso decennio, ora staziona a quota 127 (dato 2019, dunque pre Covid-19) ma il rischio è che da qui si registrerà un’altra impennata.
Una situazione a tinte fosche per i giovani italiani, che tra l’altro con ogni probabilità peggiorerà ancora per colpa della pandemia le cui conseguenze economiche hanno investito in maniera più violenta tipi di contratti di lavoro e settori economici in cui proprio i giovani sono numericamente più presenti.
Il dossier giovani sul tavolo del Presidente Draghi
Quali le politiche pubbliche che il nuovo Governo potrebbe mettere in campo per tentare di ridurre questa profonda ingiustizia generazionale che caratterizza il nostro Paese e che la pandemia rischia di acuire? Almeno tre le possibili direttrici d’azione. Ai giovani, più colpiti da questa fase di recessione economica, va offerta innanzitutto una qualche forma di protezione. Ciò si potrebbe fare riequilibrando strumenti già in campo. Un esempio? Il Governo uscente ha stanziato 4,47 miliardi di euro per la fiscalità di vantaggio per le nuove assunzioni, di cui solo 340 milioni per le assunzioni di giovani (nel PNRR, l’intervento racchiude in un’unica voce le tre categorie: giovani, donne e macroarea Sud). Si potrebbe ampliare la quota di risorse dedicate agli under 35. In tutti i modi, inoltre, vanno preservate e aumentate le competenze dei lavoratori di domani, investendo su formazione ed educazione, introducendo meccanismi di valutazione e incentivi premiali a tutti i livelli per l’assegnazione di fondi pubblici, sburocratizzando e aggiornando i processi di formazione continua pure per chi è entrato da poco nel mondo del lavoro. Infine va garantita una forma di sicurezza economico-sociale per il futuro. I giovani di oggi non potranno contare, in molti casi, su una pensione di ammontare sufficiente. Il passaggio al sistema contributivo per tutti, associato a carriere lavorative che iniziano sempre più tardi e caratterizzate da frequenti periodi di inattività in ragione delle crisi di questi anni, fanno presagire assegni previdenziali non sempre soddisfacenti. Da una parte si potrebbe rendere meno oneroso – da subito – il riscatto degli anni di studio universitario per i giovani lavoratori. Dall’altra, in maniera più strutturale, si potrebbe pensare a forme di contribuzione figurata, finanziata cioè dallo Stato, per tutti i lavoratori più giovani; una sorta di previdenza integrativa sussidiata pubblicamente in una fase oggettivamente critica, così da garantire un assegno previdenziale più robusto. Come trovare le risorse per farlo? Immaginare una qualche forma di perequazione dei contributi che incida sulle pensioni attuali più sostanziose non è impossibile, seppure politicamente difficile. Meno controverso sarebbe l’impegno pluriennale ad accantonare, all’interno di Leggi di Bilancio da decine di miliardi di euro, risorse per integrare le pensioni future dei nostri figli e nipoti.
La necessaria riscrittura del Recovery Plan
Soprattutto, però, nel breve termine, il Governo Draghi dovrà gestire oculatamente quelle che lo stesso Presidente del Consiglio ha definito “risorse straordinarie” dell’Unione europea. Nelle nuove Linee guida per il Recovery Plan nel quadro di Next Generation Eu, come argomentato in un precedente Policy Brief, le politiche pubbliche a favore dei giovani non sono più soltanto un obiettivo “orizzontale” del Piano, cioè un aspetto da considerare nel raggiungimento di altri obiettivi portanti. Accanto a transizione verde, trasformazione digitale, crescita sostenibile e inclusiva, coesione sociale e territoriale, resilienza, sanità, ecco che le “politiche per nuove generazioni, giovanissimi e giovani, incluse le politiche di istruzione ed educazione” assumono infatti la dignità di “pilastro” del programma europeo. In estrema sintesi, è come se le istituzioni di Bruxelles avessero deciso di sottolineare con maggiore forza l’obiettivo – fondamentale fin dall’inizio – dei finanziamenti del Recovery Plan, appunto il miglioramento delle condizioni di vita delle “nuove generazioni”. Nelle nuove Linee guida, si legge fra l’altro: “Gli Stati membri dovranno spiegare in che modo il Piano promuoverà politiche per le future generazioni, in particolare in materia di istruzione e cura della prima infanzia, istruzione e competenze, comprese le competenze digitali, miglioramento delle competenze e riqualificazione, occupazione e equità intergenerazionale. Tali azioni dovrebbero garantire che la prossima generazione di europei non sia colpita in modo permanente dall’impatto della crisi causata dalla pandemia e che il divario generazionale non sia ampliato ulteriormente”.
Il Governo italiano, che nella prima stesura del suo PNRR ha dedicato un capitolo a “istruzione ed educazione” (la missione numero 4 del Piano varato da Conte), dovrà quindi rivederne l’architettura complessiva per tenere conto della priorità attribuita dalle istituzioni europee alle politiche giovanili, intese in senso ampio, quindi dalle politiche attive per il lavoro alle politiche abitative, per fare alcuni esempi. A saldi complessivi invariati (circa 200 miliardi di euro in sette anni), secondo nostri calcoli, le risorse di Next Generation Eu da destinare ai giovani raggiungerebbero così i 20 miliardi di euro. Non una cifra monstre, ma finalmente un segnale di attenzione concreta, almeno questo sì.