Politica e fotografia
di Francesco Napolitano
Quel luogo immaginario in cui parole e pensieri si incontrano in un click meccanico sintetizzandosi nell’istantanea di uno scatto e così fondendosi…
Se il luogo in questione è la fotografia, essa stessa talvolta si lancia verso un altro luogo da mettere a fuoco… la politica.
Fuoriuscito dalla camera oscura, il momento-prodotto politico è stato raffigurato in un vortice di bandiere e attimi vibranti di campagne elettorali, in un insieme di interpreti colti in flagrante nell’attimo di pronunciare tormentate decisioni sul gong delle scadenze perentorie della storia.
Ma è la politica ad essere oggetto della fotografia o è la fotografia a costituire uno strumento della politica?
Si può pervenire ad una risposta solo ponendosi dall’altra parte dell’obiettivo, calandosi nella veste del fotografo di turno che nello “zoommare” sui fatti che scandiscono l’attività politica in movimento, si è alternato nei molteplici ruoli di inconsapevole catturatore di immagini, di fedele e attento agente della storia, di megafono di propaganda, per divenire persino “fotografo militante”.
Il negativo che uscirà fuori dalla narrazione targata Mics Luiss, nel racconto del rapporto fra politica e fotografia seguirà proprio queste citate possibilità interpretative a cui è chiamato colui il quale, nel gioco di contrappesi fra sole e ombre, scrive con la luce (dal greco fotos-grafos).
In qualità di arti, la politica e la fotografia, sono accomunate dalla stessa regola, ovvero che imparare a vedere è il tirocinio più lungo. Entrambe devono essere capaci di vedere una composizione o un’espressione che la vita propone ed entrambe devono saper intuire il momento in cui si “deve scattare”.
Nel costante andirivieni del beccare il miracolo dell’attimo e del vincere sull’azzardo dell’incontro, ha certamente saputo intuire il momento in cui scattare il fotografo catturatore di immagini, ritrovatosi nel posto giusto al momento giusto ad immortalare episodi culmine.
Fra questi ricordiamo l’immolazione del monaco buddhista Thich Quang Duc intento a darsi fuoco nelle strade di Saigon in protesta contro il governo sudvietnamita, il salto di Conrad Schuman, fra i primi soldati disertori che hanno scavalcato il filo spinato posto fra Berlino Est e Berlino Ovest, e la bambina col Napalm, ritratta per caso nell’atto di fuggire nuda in condizioni disumane dal pericolo di un attacco chimico.
Il fotografo agente fedele della storia sembra invece aver preso spunto da una riflessione di Arno Rafael Minkinnen, convinto che l’apparecchio fotografico (noi aggiungeremmo similmente alla politica) è una specie di professore che insegna a capire il mondo e a vedere come le cose si mettono insieme, con un occhio attento al ricordo del passato.
Così Steve Mc Curry, nella “Giovane ragazza afghana rifugiata dagli occhi verdi” e Robert Doisneu ne il “Bacio all’hotel de Ville”, simbolo di rinascita e felicità alla fine della disperazione della Seconda Guerra Mondiale, o ancora la foto del ribelle faccia a faccia col carrarmato in piazza Tienanmen, non solo hanno bloccato staticamente un evento nella sua istantaneità, ma lo hanno raccontato con le forme interpretative di una fotografia “istruttiva” che risveglia la coscienza, di una fotografia che sa farsi embrione narrativo.
Del resto, come affermato da Isabel Allende, una bella fotografia è più potente di pagine e pagine scritte.
L’assunzione da parte della fotografia di una “dimensione ontologicamente politica” è ben visibile nella fotografia megafono di propaganda, sollecitata dalla costante tensione del “flashare” il leader nell’amabilità dei suoi movimenti e delle sue espressioni.
Restituendo presenza storica e soprattutto scenica alla politica, qui la politicità dell’atto fotografico nel compito di enunciare con forza gli aspetti positivi del leader gesticolante a tratti indicante, domandante, amicale, affettuoso, minaccioso e profetico, muove verso l’esaltazione delle potenzialità estetiche e documentali di una fotografia divenuta progetto politico aldilà dell’immagine.
Così pensiamo a Mussolini virilmente ritratto a torso nudo impegnato a combattere la battaglia del grano, a Putin anch’egli a torso nudo sul cavallo, preoccupato di trasmettere un’immagine di capo vigoroso ed eccellente in ogni disciplina sportiva, o rimanendo nella madrepatria Russa, a Lenin mentre arringa un’enorme folla nella piazza moscovita di Sverdlov durante la Rivoluzione di Ottobre.
Nell’epoca di una comunicazione di massa dominata dall’incedere dei social network, il rapporto fra esibizione e persuasione politica, si muove attraverso i rinnovati sentieri della manipolazione digitale e del narcisismo fotografico, in cui a fare da apristrada sono la sapiente opera ingannevole degli spin doctor ed i magici ritocchi della tecnologia.
Così nel “medium net” di cartelli, manifesti e santini elettorali, l’esercizio di volontà comunicativa che dà risalto alla forza evocativa delle immagini, è diretto a promuovere l’espressione giganteggiante del politico in primo piano, la sua espressione serena, suscitante coraggio e curiosità, che si infiltra più o meno subdolamente nell’inconscio dell’elettorato.
Precursori di questi escamotage (come di tanti altri) sono stati Che Guevara, il cui ritratto sposa proprio quanto affermato da Marshall McLuhan secondo il quale la fotografia conferisce una specie di immortalità, e Silvio Berlusconi, attento uditore di Alfred Stieglitz, per il quale nella fotografia c’è una realtà così sottile che diventa più reale della realtà.
Si pensi che in una sorta di conflitto fra autenticità e finzione, il Cavaliere nel celebre discorso della discesa in campo, si è fatto riprendere con una calza di nylon stesa sull’obiettivo, per rendere l’atmofera più calda, lo sguardo più morbido e le rughe meno visibili.
Potente mezzo di espressione che ha narrato la politica ed i suoi interpreti, la fotografia ha infine cronicizzato l’anima in movimento di una collettività politicizzata, in marcia verso cortei di protesta e contestazione.
Il fotografo militante, mentre trattiene il respiro per captare la realtà fugace e premere il tasto, è allo stesso tempo parte in causa degli avvenimenti che raffigura, testimone di mutamenti sociali e di episodi che segnano un’epoca, vettore di motivi iconici che si iscrivono nell’immaginario collettivo.
Fra i tanti momenti che ci vengono in mente, le foto ribelli e “shock” di Woodstock, la celebre foto in cui un pacifista, per dissuadere dalla guerra in Vietnam, infilò un fiore nel fucile carico del soldato dinnanzi a sé, e la foto simbolo degli Anni di Piombo, in cui un militante di estrema sinistra viene colto con la pistola in pugno durante una manifestazione di protesta in via De Amicis a Milano.
Estraendo la pellicola dal rullino della nostra narrazione, siamo chiamati a trovare un minimo comune denominatore, una prospettiva di convergenza fra i due mondi.
Nel mostrare i tanti istanti di cui la vita è fatta, la fotografia, ugualmente alla politica, è chiamata a porre sulla stessa linea di mira mente, occhi e cuore, nell’intento di guardare oltre, di leggere fra le righe e ricercare quel punto che stupisce e sorprende in modo inaspettato, anche correndo il rischio della rivelazione.