Riformare l’Italia per arrivare a cambiare l’Europa
di Sergio Fabbrini
Tra due settimane dovremo inviare alla Commissione europea il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), uno strumento cruciale per promuovere l’Italia della prossima generazione. Nei giorni scorsi, il premier Draghi ha incontrato i partiti che sostengono il suo governo per sentire le loro proposte sul Pnrr. Una scelta dovuta, in una democrazia parlamentare, anche se è bene ricordarsi che il governo nasce dalle difficoltà progettuali di quei partiti. Difficoltà dovute al fatto che il Pnrr deve indicare le riforme da fare (non solamente gli investimenti da promuovere), riforme destinate ad intaccare pratiche consolidate tra le loro constituencies elettorali. Per di più, la congruenza del nostro Pnrr costituisce la condizione del successo europeo di Next Generation (NG-EU), da cui derivano le risorse per realizzarlo. L’Italia è la beneficiaria della quota maggiore dei fondi di NG-EU, con la conseguenza che l’inconsistenza del nostro Pnrr (rispetto alle raccomandazioni della Commissione europea e agli obiettivi da essa fissati) rafforzerebbe gli avversari dell’Europa solidale di NG-EU. Basti pensare che il voto sulla Decisione relativa all’incremento delle risorse proprie (per avviare NG-EU) sta dividendo la maggioranza parlamentare in Finlandia e nella Repubblica Ceca, non è stato ancora sottoposto al parlamento in Austria e Ungheria, sta ostacolando la formazione del governo nei Paesi Bassi, è sotto il tallone nazionalista della Corte costituzionale in Germania. Poiché senza un’Europa solidale la rinascita italiana (e non solo italiana) è improbabile, allora è bene capire come può cambiare l’interdipendenza tra Roma e Bruxelles.
Cominciamo dalla crisi finanziaria del decennio scorso. Arrivammo alla crisi con un debito pubblico ingiustificabile e dovemmo affrontare la crisi attraverso una governance europea altrettanto ingiustificabile. L’Ue (o meglio l’Eurozona) si dimostrò molto più preoccupata della stabilità che della crescita, ossessionata dalla possibilità che un Paese debitore potesse avvantaggiarsi delle risorse di un Paese creditore (il cosiddetto “azzardo morale”). La crisi fu gestita con strumenti intergovernativi, istituzionalizzati in Trattati internazionali (il Meccanismo europeo di stabilità o MES del 2012 e il Fiscal Compact del 2013), in base ai quali i Paesi dell’Eurozona, a rischio di default finanziario, venivano aiutati solamente a vincolanti condizioni. L’esito di tale gestione (intergovernativa e internazionale) della crisi fu lo “sconquasso democratico” (Dani Rodrik) dei Paesi debitori dell’Europa del sud. Senza quella gestione della crisi, non ci sarebbe stata la “rivoluzione populista” delle elezioni italiane del 2018 (con le sue conseguenze). L’interdipendenza di allora ci indebolì.
La crisi pandemica è stata affrontata in modo diverso. Per affrontarla, non si è dato vita ad un nuovo trattato intergovernativo, né la sua gestione è stata monopolizzata dai governi dei Paesi meno colpiti da essa. Questa volta è stato creato un programma (NG-EU), che fornisce sussidi e non solamente prestiti ai Paesi più colpiti, collocato all’interno del sistema legale dell’Ue. La Commissione europea potrà emettere debito, nel mercato finanziario, per raccogliere i fondi necessari per sostenere NG-EU, debito che dovrà essere garantito da risorse provenienti da nuove tasse europee. La governance del programma, sia per l’assegnazione dei fondi agli stati membri che per la loro eventuale sospensione per insufficienze gestionali e programmatiche, è stata affidata alla Commissione europea e al Consiglio dei ministri nazionali (con il Consiglio europeo investito del potere di arbitro di ultima istanza, in caso di contrasti di valutazione tra le due istituzioni). Certamente non siamo in presenza di una governance sovranazionale (il Parlamento europeo non ha voce nella gestione di NG-EU, anche se l’ha avuta nella sua approvazione), ma siamo lontani dalla governance intergovernativa del MES o del Fiscal Compact. Se per uscire dalla crisi finanziaria i Paesi debitori (come il nostro) dovettero tagliare spese e investimenti, per uscire dalla crisi pandemica i Paesi più colpiti (come il nostro) riceveranno invece risorse per spese e investimenti. L’interdipendenza di oggi ci sta rafforzando.
Non è il Cielo a stabilire la natura dei rapporti tra Roma (e le altre capitali) e Bruxelles. Ma è la politica a farlo. La crisi pandemica ha mostrato la possibilità di dare vita ad un’Ue più solidale, ma soprattutto meno centralizzata. Nell’interdipendenza creata dalla crisi, la politica potrebbe cercare di rendere permanente la (limitata) capacità fiscale acquisita da Bruxelles con NG-EU, da utilizzare per produrre beni pubblici europei (dalla difesa alle infrastrutture) e non solamente per sostenere i Paesi in difficoltà. Si dovrebbe creare un (limitato) bilancio europeo con una funzione stabilizzatrice, gestibile dalla Commissione con l’approvazione del Parlamento europeo e del Consiglio dei ministri. Ciò aiuterebbe a riformare il Patto di stabilità e crescita, messo in discussione dalla pandemia. Come si può ritornare ai parametri di Maastricht, con l’Italia che uscirà dalla pandemia con un debito pubblico del 160 per cento del Pil, la Francia del 122 per cento, la Germania del 73 per cento? Ci vogliono nuove regole per tenere insieme Paesi strutturalmente disomogenei. Tutto ciò sarebbe irrealizzabile, se il governo italiano non si rivelasse capace di portare il Paese verso la nuova generazione. Ecco perché il successo del Pnrr italiano è una condizione del successo europeo di NG-EU. Pensiamo all’Italia, non già alle prossime elezioni.
(Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore e su Luiss Open)