Sanremo e il rapporto musica-politica in un divertissement immaginifico

di Francesco Napolitano

“Arte, libertà e creatività cambieranno la società più velocemente della politica!”. Una frase dall’intonazione assertiva. Una frase attribuita all’uomo d’affari e filantropo ucraino Victor Pinchuk che può legittimamente fare da apripista ad un’analisi del rapporto tra musica e politica, che su MICS proponiamo attraverso un divertissement proprio nel giorno in cui comincia l’edizione numero 71 del Festival di Sanremo.

Nella speranza che la politica possa riempire il gap determinatosi fra sogno e realtà, si potrebbe tentare di individuare un punto di contatto fra l’arte del compromesso, o più utopisticamente l’arte del buon governo e dell’amministrazione dello Stato, e l’arte della musica, definita da Tolstoj come la “stenografia dell’emozione”.

Sono stati molteplici negli anni i tentativi compiuti dai cantautori di avvicinare questi due mondi tramite la narrazione di temi politici. Se la musica, anche per mezzo delle parole, riesce a dar sfogo a sentimenti di liberazione, a desideri di evasione e di fuga, se rappresenta -a detta di Bob Marley- il “sentimento del movimento” e il “movimento del sentimento”, è legittimo domandarsi se ci sia un mezzo più efficace della musica per raccontare quella particolare malattia, la politica, che colpisce gli animali sociali (ovvero gli uomini) e da cui difficilmente si può guarire.

Alla politica non c’è scampo. Essa permea ogni aspetto della nostra esistenza. I tentativi di restarne indifferenti sono vani. “Non mi occupo di politica, equivale a dire non mi occupo della vita” sosteneva Jules Renard. Mettiamoci l’anima in pace, allora, perché alla politica non si può sfuggire.

Non c’è migliore occasione se non quella del Festival di Sanremo, da sempre specchio dell’attualità e riflesso dei piccoli e grandi attimi di vita quotidiana in cui la politica e i suoi interpreti possono rientrare a buon diritto come protagonisti se non proprio diretti, almeno indiretti.

Alziamo il sipario. Il pubblico è impaziente di ascoltare come l’universo della musica, quel mondo affascinante che dice ciò che talvolta non si può dire e che coniuga ragione ed emozione, racconti (anche) la politica. Sia pur con i propri filtri e codici.

Per pochi minuti facciamo ricorso alla nostra immaginazione per costruire una idealtipica competizione musical-popolare durante la quale si potrebbero coinvolgere competitors attuali ed evergreen, gareggianti in tre diverse categorie a seconda delle tematiche di riferimento.

La prima è la categoria più impegnativa. Si dovrà prestare molta attenzione per placare i bollenti spiriti del pubblico diviso in schieramenti. Categoria contraddistinta dalla presenza di canzoni propaganda. Il televoto sarà fortemente polarizzato nella scelta da compiere tra motivi dal vessillo italiano, che ammirano sui Colli di Roma nuova gloria ed eterno splendor e che celebrano un popolo di eroi ed una patria immortale, e motivi inneggianti alla riscossa alla libertà ed alla scacciata dell’invasore con il sigillo del fiore partigiano.

A seguire c’è la seconda categoria, quella delle canzoni di contestazione: canzoni che, come in un lungo fil rouge di protesta, hanno unito i più giovani nella lotta alla schiavitù, al razzismo e alla discriminazione, all’abuso di autorità e armi. Entrano sicuramente in gara Bob Dylan con il suo “Blowin in the wind”, inno alla fratellanza di fronte alla crisi di Cuba, le battaglie culturali di Jimi Hendrix, il no deciso ai conflitti pronunciato dai Pink Floyd. I quali già dalla copertina dell’album “Wish you were here” condannavano la guerra in Vietnam e l’uso del napalm e che nell’album Animals attaccavano “Maggie” Thatcher durante la guerra nelle Falkland.

La terza ed ultima categoria è rappresentata invece dalle canzoni pop nostrane, contraddistinte dal malcontento, da cinica disillusione e amara ironia nei confronti della politica. Anche in questo caso i mostri sacri non mancano. Per Giorgio Gaber non ha senso prendersela con la storia, bisogna fare ammenda e confessare che la colpa è nostra e che la gente è poco seria quando parla di sinistra e di destra.  Rino Gaetano invece lanciava uno scioglilingua partitico di insofferenza PCI, PSI, DC, PLI, PRI, nun reggendo più il party sistem, l’immunità parlamentare, le auto blu, l’onorevole eccellenza cavaliere senatore, mentre c’è gente che non ha niente, neanche l’acqua corrente. Frankie HI-NRG-MC, dedicandosi al momento clou delle elezioni, si rivolgeva agli elettori avvertendoli che quando sono in cabina devono ricordarsi di essere la colonna (sonora?) di un sistema.

Prima di dare il via al voto o al televoto è doveroso ricordare agli spettatori che se la musica a differenza degli uomini non tradisce, come affermato dalla Bertè, mentre la politica è l’arte di mentire consapevolmente, come sostenuto da Aristotele, allora le lamentele e le critiche nei confronti della politica manifestatesi attraverso le canzoni non sono altro che un invito alla sincerità. Un incentivo alla presenza, ad una maggiore sensibilità e ad una più definita necessità di ascolto.

La musica e le canzoni, cassa di risonanza dell’animo umano, sembrano aver intimato alla politica tutto ciò. Del resto, in accordo con lo spirito puro di Ezio Bosso, vale la pena di ricordare che la musica ci insegna che la cosa più importante che esiste è la capacità di ascoltare.

Che la gara abbia inizio. Quella reale e quella immaginifica con lo sguardo rivolto al passato.