Social, libertà di stampa e fake news. Intervista di MICS al Commissario AGCOM Giacomelli
di David Bruschi
E’ giusto che i social network facciano da cassa di risonanza alle bugie? O è invece arrivato il momento che le piattaforme digitali inizino a ripulire il proprio ecosistema dalla disinformazione che avvelena i pozzi del dibattito pubblico? E ancora: chi decide oggi cosa è vero e cosa è falso, cosa è giusto e cosa no? E i giornalisti sono davvero destinati ad essere tagliati fuori da questo dibattito mentre il sistema dell’informazione ancora si arrovella a definire quello che dovrà o potrà essere il proprio ruolo? Antonello Giacomelli, attuale commissario Agcom ed ex sottosegretario alle Comunicazioni nei governi Renzi e Gentiloni, con questi interrogativi fa i conti quotidianamente. Essendosi occupato per una vita dei problemi dell’informazione, sa bene che da come gli Stati, l’Unione Europea e le grandi potenze mondiali scioglieranno questi nodi dipenderà non solo il modo in cui l’opinione pubblica definirà se stessa nei prossimi anni, ma anche quello in cui si evolveranno le nostre democrazie.
Giacomelli, partiamo dall’attualità. Clarence Thomas, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, il 5 aprile ha firmato una ‘concurring opinion’ nell’ambito di un ricorso contro la decisione dell’ex presidente Donald Trump di bloccare alcuni utenti di Twitter, ribaltandone il punti di vista. In verità, ha detto Thomas, è Twitter a disporre di un potere eccessivo ed extra-costituzionale e lo dimostrerebbe la decisione, presa proprio dal social network, di espellere in modo irrevocabile lo stesso Trump dalla piattaforma, impedendogli così di veicolare le proprie opinioni. Cosa pensa di queste posizioni?
Intanto è giusto ricordare che il caso Thomas nasce da un ricorso alla Corte Suprema del 2017 contro la decisione dell’allora presidente Trump di bloccare alcuni suoi follower su Twitter, e cioè dal diritto del Presidente di utilizzare una delle ‘regole d’ingaggio’ del social network, tra le quali c’è anche quella che ha portato alla cancellazione del suo account. Non entro nel merito del caso Thomas e dell’eventuale strumentalità delle sue argomentazioni. Ho già avuto modo di osservare, però, che il tema della limitazione della libertà di espressione sui social network esiste e credo sia utile il confronto pubblico che si è aperto sul ruolo e sulle responsabilità delle piattaforme. Un dibattito peraltro che avviene soprattutto su quelle piattaforme che spesso sono additate come nemiche della democrazia.
Da una parte il dovere di garantire la libertà di espressione, dall’altra la necessità di impedire il proliferare di informazioni false. Bilanciare le due esigenze sembra quasi impossibile…
Non metterei le cose sullo stesso piano. Per quanto mi riguarda e per la cultura da cui provengo, il principio di riferimento, il principio cardine cioè, rimane quello della libertà di espressione come diritto fondamentale della persona. Se non parliamo di reati previsti dalla legge, mi sembra quindi priva di fondamento giuridico la pretesa di giustificare una limitazione della libertà di espressione in base ad un presunto rischio di ‘disinformazione’.
C’è però una premessa da considerare, ossia che Twitter si attribuisce il potere di rimuovere il profilo di qualsiasi cittadino ’in qualunque momento e per qualunque o nessuna ragione’. Insomma, i termini di servizio, per chi decide di iscriversi al social network, sono chiari fin dall’inizio. La stessa cosa vale per le altre piattaforme digitali. Non pensa che già questo sia sufficiente per consentire alle Big Tech di porre dei limiti, anche discrezionali, alla circolazione dei contenuti?
Con il Digital Services Act è la stessa Commissione UE a introdurre significativi impegni per le piattaforme in termini di accountability e trasparenza. Quindi sgombriamo il campo dall’equivoco di chi dice che, trattandosi di soggetti di diritto privato, siano libere di fare tutto quello che vogliono. Il punto semmai è come contemperare i diversi diritti ed interessi in gioco e chi sia legittimato a farlo.
Dunque pensa che le piattaforme siano sottoposte al dovere di garantire la libertà di opinione in tutte le sue forme, quasi come fossero i fornitori di un servizio pubblico?
La questione mi pare quella di una definizione puntuale ed innovativa del profilo di responsabilità, posto che, a mio avviso, nessuna delle due posizioni estreme, totale irresponsabilità e omologazione al ruolo di editore, rappresenta un approdo convincente. Del resto anche negli Usa si è aperto un dibattito sulla decisione assunta nel 1996 dal Congresso. «Nessun fornitore di servizi internet e nessun utilizzatore di tali servizi può esser ritenuto responsabile quale editore o quale autore di una qualsiasi informazione che sia stata creata e fornita da terzi»: così recita la sezione 230 del Communications Decency Act. Ma se è certamente ragionevole ritenere che senza questa forte protezione legale molti dei social non sarebbero neppure nati, oggi tuttavia nelle stesse piattaforme sta emergendo una consapevolezza diversa rispetto a quella fondamentalista delle origini, che si confronta, talvolta, con iniziative anche molto discutibili, con la necessità di individuare una regola più articolata e più convincente della rivendicazione di una totale irresponsabilità rispetto ai contenuti pubblicati dagli utenti. Per dirla in sintesi: senza la regola della “non responsabilità” probabilmente le piattaforme social non sarebbero nate, ma senza una regolamentazione più avanzata oggi faranno fatica a sopravvivere come spazio affidabile per gli utenti.
Tornando al caso Trump, oscurato anche da Facebook durante l’ultima campagna elettorale, si potrebbe affermare che al presidente Usa, uno degli uomini più potenti al mondo, non mancasse certo la possibilità di far sentire la propria voce. E che gridare alla censura appare forse un po’ eccessivo di fronte a una persona accusata di fomentare un’insurrezione armata sostenendo, senza fornire alcuna prova, che il voto era irregolare. Tanto più se, allo stesso tempo, si sostiene che le piattaforme digitali abbiano il dovere di combattere le fake news…
Dal punto di vista politico Trump ha certamente responsabilità enormi. Non ho condiviso niente della sua politica e non mi riconosco nella sua impostazione culturale, ma l’oscuramento del suo profilo rimane, a mio giudizio, un atto eccessivo, di dubbia legittimità e sostanzialmente sbagliato.
Sempre a proposito di fake news si può prendere a titolo esemplificativo il caso di un’altra recente decisione. Questa volta in Italia, questa volta di YouTube, che recentemente ha cancellato un canale da 500.000 iscritti, ritenuto responsabile di avere fatto circolare notizie false relative al Covid e alla pandemia. Quindi si è trattato di una decisione errata?
Fake news è una definizione molto ambigua, troppo generica e che rischia di portarci fuori strada. A cosa ci riferiamo? Facebook ad esempio ha rimosso milioni di post sul Covid perché non conformi alle posizioni dei Governi e delle autorità sanitarie. Credo sia un crinale molto scivoloso quello di stabilire che la versione ufficiale del governo è il paradigma della verità o comunque di quello che è consentito dire. La questione non è quanto io trovi condivisibile una certa teoria complottista sulle origini del virus, ad esempio, ma in base a quale principio giuridico io sia legittimato a negare ad un altro il diritto di esprimerla. Non ho nessuna nostalgia per la verità di Stato e non provo nessuna suggestione per l’algoritmo della verità: il giorno in cui assegnassimo definitivamente a qualcuno il ruolo di decidere cosa è vero e cosa è falso, cosa si può dire o non dire, saremmo fuori dalla sfera democratica. Le ripeto, per me la libertà di espressione è uno dei diritti fondamentali e può trovare un limite solo in specifiche e tassative norme di legge. Legge che interviene, peraltro, non tanto a limitare quella libertà, ma a tutelare giustamente il diritto di ciascuno di non essere offeso, ingiuriato, calunniato.
E’ evidente, anche da quello che lei dice, che l’approccio alla corretta informazione sui social network sia davvero molto complicato. Pensa che se ne possa uscire con norme stringenti e puntuali oppure preferisce un approccio di tipo, per così dire culturale, che significa ad esempio fornire alle persone i giusti strumenti di analisi per distinguere sempre di più il vero dal falso ma anche dal verosimile?
L’autoregolamentazione delle piattaforme, sulla base della legge e del rispetto dei principi fondamentali di libertà, è molto importante, anche se probabilmente non sufficiente. Tutti dobbiamo muoverci nella direzione di fornire ai cittadini sempre più strumenti anche tecnologici per essere fruitori consapevoli. Educare a una coscienza critica, alimentare la conoscenza, fornire informazioni sulle caratteristiche delle fonti, sostenere le iniziative di fact-checking credo siano le risposte migliori alla domanda diffusa di un’informazione completa e corretta, sempre più importante nell’era dei social network i cui algoritmi di funzionamento spesso ‘premiano’ proprio i contenuti meno equilibrati e verificati. Insieme- aggiungo- alla fiducia nella professionalità dei giornalisti, che giocano un ruolo sempre più importante per la verifica di attendibilità delle fonti e per il controllo delle notizie.
Restiamo ancora un attimo sulla legislazione. Perché secondo lei è così difficile riuscire a varare norme efficaci contro le fake news e a che punto è lo stato del dibattito nel nostro Paese? Fra correzione delle informazioni, rimozione o blocco dei contenuti e sanzioni penali, quali pensa che potrebbero essere le misure più efficaci?
Su questo tema, visto il mio ruolo di commissario in Agcom, preferisco non esprimere un parere personale che investirebbe la responsabilità dell’istituzione di cui faccio parte.
È certamente difficile il compito del legislatore ma proprio per questo è un compito fondamentale ed insostituibile. Mi limito a dire che oggi, rispetto al passato, non appaiono più sufficienti regole solo nazionali. È necessaria una condivisione delle scelte almeno a livello europeo, come base per la ricerca di una regolazione condivisa anche con gli Usa.
Intanto Facebook ha deciso, per ora solo negli Usa, di intraprendere una nuova strategia di contrasto alle notizie false. Dopo la segnalazione da parte di un qualsiasi utente di contenuti ritenuti falsi, parte il controllo della veridicità della notizia da parte di una squadra di professionisti dell’informazione. Le sembra la strada giusta e dunque un sistema esportabile anche in Europa?
La decisione di Facebook di dare vita a una commissione di vigilanza composta da esperti ‘esterni’ per decidere l’eventuale rimozione dei post mi sembra confermi da un lato che il social network inizia a porsi il tema della responsabilità del proprio ruolo – difficile da negare avendo miliardi di utenti nel mondo – e dall’altro l’ammissione della propria non autosufficienza e un’implicita richiesta di ‘aiuto’: in qualche modo è come se il social network avesse preso atto di aver creato qualcosa di più grande di se stesso. La scelta di trasparenza è apprezzabile, ma il tema, come ho cercato di spiegare in questa intervista, per me va oltre questo elemento. Non è risolvibile battezzando qualcuno come certificatore del vero, anche perché la responsabilità ultima di ogni decisione resta in capo alla piattaforma. Non vorrei sembrare enfatico, ma per me la verità è una continua ricerca e non l’ottenimento di un timbro da parte di un ‘esperto’ o la validazione da parte di un algoritmo.
Lei è anche un giornalista e all’inizio della sua carriera ha lavorato nei media tradizionali, quegli stessi media che oggi appaiono completamente tagliati fuori dal dibattito più avanzato sulla libertà di informazione e sulla correttezza delle notizie. Pensa che tv e carta stampata debbano ormai rassegnarsi a rivestire un ruolo da comprimari nel mondo dominato dalla piattaforme, oppure ritiene che possano rivelarsi ancora utili per aiutare l’ecosistema informativo e comunicativo a rinnovarsi per assicurarsi un futuro?
Non credo che debbano rassegnarsi, anzi penso esattamente il contrario. Proprio perché sono sempre di più le persone che si scambiano informazioni attraverso i social network e molte news sono diventate commodity, è sbagliato inseguire i new media semplicemente su quella strada. Diventa ogni giorno più cruciale il ruolo di filtro, controllo, verifica e spiegazione delle informazioni, umile e paziente, che il giornalismo dovrebbe svolgere a favore dei cittadini anche sulle piattaforme. Negli ultimi anni si sono diffuse espressioni come debunking o fact checking che, in realtà, dovrebbero far parte dei doveri della professione da sempre. Certo, gli editori spesso non sono nativi digitali e in molti casi non hanno ancora imparato a utilizzare al meglio i servizi digitali. Nei prossimi anni sui social saranno scambiati sempre di più anche video e audio deep fake, talmente ben fatti grazie agli algoritmi di intelligenza artificiale da sembrare veri. E sarà sempre più indispensabile che qualcuno si preoccupi di verificare e controllare ciò che viene attributo e diffuso. Non so se il giornalismo professionale diventerà una nicchia, forse sì, ma qualora lo diventasse questa nicchia potrà distinguersi solo per autorevolezza e qualità, cioè per contenuti prodotti con un metodo diverso dagli altri.
*Con questa intervista MICS inaugura un format finora non utilizzato in questo portale del Master in Comunicazione e Marketing politico e istituzionale: quello del dialogo con soggetti istituzionali che per competenza e responsabilità si occupano dei temi dell’intero percorso formativo.