Social vs Trump: le opinioni di studiosi e giornalisti

(A cura di Angelo Terracciano)

La scelta delle principali piattaforme social di impedire a Donald Trump l’accesso ai propri account (oltre che a quello della Presidenza degli Stati Uniti) dopo l’assedio a Capitol Hill dello scorso 6 gennaio segna un precedente fondamentale.

Il verificarsi di un evento di tale rilevanza politica e sociale ha catalizzato l’attenzione di addetti ai lavori e studiosi e ha acceso la discussione pubblica intorno alle potenziali cause e criticità di questo scenario.
Ma quali sono le principali posizioni che hanno animato il dibattito nel corso dell’ultima settimana? MICS vi propone in questo articolo alcune chiavi analitiche apparse sulla stampa nazionale e internazionale.

Giorgino: pericoli e vantaggi nella metamorfosi dei social

Nell’articolo del Sole 24 Ore dello scorso 10 gennaio (pubblicato in versione integrale su Luiss Open e in questo portale) Francesco Giorgino parla dei rischi legati alla metamorfosi del social in media mainstream, sottolineando l’inconciliabilità tra la logica dei media generalisti e le dinamiche fondative del web 2.0, specialmente in termini di disintermediazione, orizzontalità e multi-direzionalità dei flussi comunicativi:

“Il web, specie nella versione 2.0, nasce e si sviluppa sul presupposto della massima libertà di opinione e soprattutto della determinazione a dis-intermediare o a re-intermediare contenuti prodotti in una prospettiva di co-creazione da parte degli utenti. È questa la meccanica esecutiva dei personal media, i quali a fini di marketing politico hanno agevolato l’applicazione di strategie di micro targeting e a fini di comunicazione politica la produzione di messaggi non più solo one to many, ma anche one to one, many to many e many to one. Una meccanica in totale contrapposizione, nonostante i molti processi di ibridazione funzionale in atto, a quella degli old media, alimentatisi negli anni attraverso la presenza di frame in grado di condizionare la rappresentazione della realtà. È difficile, dunque, o quanto meno troppo disinvolto, accostare la mission di una televisione generalista o di un gruppo editoriale offline e online alla proprietà di una piattaforma nata e concepita per orizzontalizzare (e non certo per verticalizzare) la produzione e la fruizione di tutti i contenuti. E che ha puntato ad implementare la partecipazione dei cittadini alla vita democratica e la presenza dei soggetti politici nella sfera pubblica.”

Giorgino non manca peraltro di sottolineare, al di là delle specifiche criticità legate al personaggio-Trump, la continuità storica dei cambiamenti che si sono osservati nel corso degli ultimi decenni in ordine alle ‘regole d’ingaggio’ della comunicazione e del marketing politico:

“Il dibattito sulla funzione dei social network rispetto alla conquista del consenso elettorale cominciò a svilupparsi prima della presidenza Trump, anche se va sottolineato che da parte sua, unitamente a uno sfruttamento in chiave di ‘personal branding’ e di ‘market oriented party’ (per dirla con Lees-Marshment) vi è stato spesso un uso sgrammaticato istituzionalmente parlando, specie quando esso era proteso alla denigrazione degli avversari, persino con qualche episodio di fake news. Twitter era il medium preferito da Trump: non a caso a metà 2015 aveva già 2,8 milioni di follower, cresciuti in modo esponenziale negli anni successivi sino ad arrivare ai quasi 89 milioni del giorno di chiusura dell’account. Fu The Donald, del resto ad ammettere, una volta arrivato alla Casa Bianca quattro anni fa, che senza Twitter non sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti.”

(Virgolettati dall’articolo “Metamorfosi dei social: pericoli e vantaggi” di Francesco Giorgino, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 10 gennaio 2021)

Murphy e Stacey: le compagnie Big Tech hanno superato un limite?

Nell’articolo pubblicato dal Financial Times l’11 gennaio Hannah Murphy e Kiran Stacey presentano le posizioni di alcuni studiosi e attivisti, sottolineando la rilevanza del tema e l’urgenza che si pone di affrontare e risolvere in maniera definitiva le distorsioni dell’attuale status quo nei rapporti di potere tra soggetti privati e istituzioni.

Kate Ruane, consulente legislativa senior per la American Civil Liberties Union ha dichiarato:

“dovrebbe preoccupare tutti quanti la possibilità che Facebook e Twitter possiedono di esercitare un potere incontrollato di rimuovere individui da piattaforme che sono diventate essenziali per il diritto di parola di miliardi di persone – specialmente quando le realtà politiche facilitano la presa di tali decisioni.”

Matt Rivitz, del gruppo di attivisti Sleeping Giants sottolinea invece:

“proprio come ogni altra piattaforma, questi servizi hanno i propri Termini di Servizio formulati appositamente per prevenire fenomeni come odio ed esortazione alla violenza ma, finora, tali regole sono state implementate raramente.”

Robert Reich, docente di politiche pubbliche a Berkeley ed ex Segretario del Lavoro durante l’amministrazione Clinton, dichiara senza mezze misure:

“le piattaforme social sono in ritardo di quattro anni [e che] l’eredità di tale scelta resterà con noi per anni.”

Per concludere, il chief executive dell’associazione no-profit Media Matters Angelo Carusone sottolinea le proprie preoccupazioni per la possibilità che Trump possa recuperare l’accesso al proprio account Facebook e riprendere le proprie attività su tale piattaforma. Egli sottolinea tuttavia quanto segue:

“il suo potere politico sarà condizionato, in quanto tale situazione limiterà la sua capacità di incarnare la voce principale dell’opposizione. Senza dubbio questo toglie molto vento dalle sue vele.”

(Virgolettati tradotti dall’articolo “Twitter vs Trump: has Big Tech gone too far?” di Hannah Murphy e Kiran Stacey, pubblicato su Financial Times l’11 gennaio 2021)

Volokh: chi è il prossimo sulla lista?

Sul New York Times del 15 gennaio troviamo una riflessione di Eugene Volokh, professore di diritto alla University of California, Los Angeles, che evidenzia come tutta la criticità della scelta operata dai social network non sia nella sanzione del comportamento pregresso, bensì nella sanzione preventiva che si produce sul potenziale discorso pubblico futuro dei soggetti colpiti:

“Peraltro, tale comportamento viene messo in atto in un contesto di competizione limitata caratterizzato da scarsa trasparenza, protezione procedurale e ‘accountability’ democratica.”

Egli sottolinea d’altra parte come tali scelte siano, da un punto di vista strettamente normativo, assolutamente legittime negli Stati Uniti e rappresentino per certi versi uno strumento teoricamente positivo per soggetti come Facebook e Twitter nell’esercizio di un ruolo di watchdogs verso comportamenti inadeguati da parte di politici e soggetti pubblici (facendo specifico riferimento anche allo spinoso tema dei diritti che vengono garantiti ai comitati elettorali finanziati da soggetti privati).

Commentando la successiva scelta di Amazon Web Services di oscurare Parler, il social ‘alternativo’ utilizzato da Donald Trump, egli aggiunge però:

“semplicemente rifiutarsi di proibire determinati comportamenti, molti dei quali sono costituzionalmente protetti, è ormai un motivo di rimozione.”

Sottolineando la natura comunque umana di tali decisioni, egli afferma anche che vi sia il rischio che, come è avvenuto per Trump, in futuro

“i politici potrebbero essere sospesi perché le proprie ‘policies’ risultano sfavorevoli alle aziende o contrari alle convinzioni dei relativi proprietari.”

Coerentemente con il discorso sulla media logic analizzato nell’articolo di Giorgino, anche Volokh ammette che tali operazioni di filtraggio e copertura sono correntemente esercitate dai media tradizionali, ma aggiunge altresì che essi differiscono dai media digitali per il mercato in cui agiscono, tendenzialmente concorrenziale, e per le tipologie di controllo a cui sono sottoposti da parte di cittadini e istituzioni. Egli sminuisce i rischi di abuso di potere da parte di soggetti come Facebook e Twitter, sottolineando come gli ambiti dell’azione sanzionatoria siano ad oggi piuttosto limitati, ma sottolinea come rimangano forti criticità in ordine alla trasparenza delle procedure e delle decisioni e alla democraticità di queste ultime.

In conclusione si domanda, al di là della tutela del principio di libera iniziativa privata, se i politici siano pienamente consapevoli o meno della capacità di influenza che pochi soggetti in un mercato mediale non competitivo potranno produrre sul discorso pubblico del futuro.

(Virgolettati tradotti dall’articolo “Trump Was Kicked Off Twitter. Who’s Next?” di Eugene Volokh, pubblicato sul New York Times il 15 gennaio 2021)

Stille: se i social giudicano le opinioni

Nel proporre la propria chiave interpretativa al bando ricevuto da Donald Trump nei giorni scorsi Alexander Stille mette in luce quelle che secondo lui sono criticità che meritano risposte urgenti:

“Una manciata di dirigenti non eletti dovrebbe decidere a quali informazioni hanno accesso miliardi di persone in tutto il mondo? Perché vietare le false affermazioni di Trump sulle elezioni del 2020 pur continuando a consentire ai leader autocratici di Cina e Iran di fuorviare e manipolare il loro popolo? E che dire della responsabilità dei social nel creare la palude malarica di disinformazione che ha aizzato la folla al Campidoglio.”

Egli sottolinea l’incongruenza nelle scelte operate in particolare da Mark Zuckerberg, ricordando come egli si sia rifiutato di sanzionare le affermazioni false di Trump durante la campagna elettorale dei mesi precedenti. Nel ricordare il quadro normativo vigente e le eccezioni sulle quali, ad oggi, si regge la libertà di cui godono i social network, Stille afferma come sia difficile oggi credere a Facebook e Twitter quando essi dichiarano di non essere editori, sia per l’arbitrarietà con cui i contenuti ‘liberi’ degli utenti vengono comunque controllati sia per i volumi di informazione che vengono ospitati dalle piattaforme.

“Facebook, con 2,7 miliardi di utenti è senza dubbio la più grande fonte di notizie e informazione al mondo. […] Il 90% degli utenti di Facebook vive al di fuori degli Stati Uniti, ma il resto del mondo vive con gli standard estremamente permissivi del Primo Emendamento e della Sezione 230. Una società tecnologica con sede nella Silicon Valley potrebbe non essere sempre il miglior giudice di ciò che inciterà alla violenza in altri angoli del globo. Un post su qualcuno che macella una mucca potrebbe non generare indignazione negli Stati Uniti, ma potrebbe portare gli estremisti indù a linciare qualcuno in India, che ospita il maggior numero di utenti di Facebook.”

Stille sottolinea infine come Facebook sia in grado di influenzare il comportamento politico attraverso cambiamenti “sottili e spesso inosservati”, sottolineando come attraverso l’introduzione del pulsante “Ho votato!” si stima ci sia stato un aumento dell’affluenza elettorale dei midterm del 2010 di 340.000 voti. In linea con la posizione di Volokh presentata in precedenza, il problema è anche nella mancanza di trasparenza delle logiche di funzionamento ordinarie, basate su incentivi alla partecipazione che rendono le persone “molto più propense a condividere e interagire con contenuti provocatori che generano rabbia e indignazione”. Fattore che agevola la circolazione di notizie false e fuorvianti.

(Virgolettati dall’articolo “Il giudice delle opinioni” di Alexander Stille, pubblicato su La Repubblica il 17 gennaio 2021)

Floridi: la buona ecologia dell’infosfera

Marco Pacini ha incontrato per L’Espresso Luciano Floridi, teorico dell’infosfera e autore di riferimento sui temi relativi al cambiamento in senso connesso della vita e della società.

La prospettiva del filosofo è infatti quella di un problema con “due dimensioni connesse [in cui] la confusione è generata da chi ne considera solo una.” Anche in questo caso egli afferma che i provvedimenti adottati nei confronti di Trump andavano adottati molto prima, per garantire “una buona ecologia dell’infosfera”, menzionando l’articolo 20 del Digital Services Act, secondo cui “le piattaforme digitali devono sospendere, per un periodo ragionevole e dopo aver emesso un avvertimento preventivo, la fornitura dei propri servizi ai destinatari degli stessi servizi che producono frequentemente contenuti manifestamente illegali”.

Le due facce delle piattaforme si mostrano però nel momento in cui da un lato un soggetto pubblico viene sanzionato ed escluso contro la propria volontà dalle piattaforme mentre dall’altro miliardi di utenti sono costretti ad accettare termini e condizioni relative alla privacy per potervi rimanere. In questo senso, in particolare riferendosi ai timori relativi al potere di controllo sulla società esercitato da soggetti privati, egli afferma che il vero problema dei meccanismi dietro le grandi piattaforme “riguarda semplicemente il modello di business che c’è dietro, non il capitalismo in generale. Non vedo l’incompatibilità di questi servizi con la privacy. Il business model attuale è costruito per essere ‘gratuito’ e faci pagare con i dati. Questo è il meccanismo che non funziona, ma non ha nulla a che fare con il capitalismo della sorveglianza.”

Richiamando poi alcuni modelli ibridi a pagamento che gestiscono in maniera più trasparente i dati che richiedono agli utenti, come ad esempio Netflix, Floridi chiarisce che lo status quo vigente non è l’unico possibile e che, per quanto se ne dica, il legislatore è in ultima istanza colui che possiede “l’ultimo potere, quello finale” e che proprio per questo il potere dei colossi big-tech è estremamente fragile.

Riprendendo il tema della bidimensionalità, egli prova anche ad individuare possibili fattori in grado di invertire la rotta e afferma quanto segue innanzitutto dal punto di vista delle stesse big-tech companies.

“Ci sono due forze che non funzionano e due che potrebbero funzionare. Le due forze che non funzionano sono l’autoregolamentazione e la competizione. Sono armi spuntate, lo dico avendo conosciuto dall’interno Google e Facebook. L’autoregolamentazione non funziona perché è ‘troppo poco e troppo tardi’. Quanto alla competizione lo vediamo benissimo: è un farsi la guerra, ma non un competere per migliorare il servizio a noi che ce ne serviamo. Per rimettere la competizione in campo bisogna riformare l’antitrust. Se venisse riformato seriamente allora vedremmo che Facebook e Whatsapp non potrebbero stare insieme.”

A seguire, osservando il tema dal punto di vista degli altri attori, egli aggiunge quanto segue:

“Le altre due forze sono quelle della regolamentazione dal punto di vista legislativo in termini di standard (che dovrebbero essere fondati su una legislazione europea) e la public opinion. Oggi l’opinione pubblica piano piano comincia a essere meno supina.”

In conclusione, Floridi risponde a coloro che manifestano scetticismo rispetto alla capacità della politica di rincorrere la tecnologia, affermando che il legislatore “non deve rincorrere ma direzionare la tecnologia” e ricordando che le istituzioni possono in qualsiasi momento intervenire per vietare l’attività di tutte le piattaforme e che, forti di questa ipotesi, hanno tutta la possibilità di intervenire per correggere i business model che producono effetti distorsivi della sopracitata ecologia dell’infosfera.

(Virgolettati da “Sorvegliare i social”, colloquio di Marco Pacini con Luciano Floridi pubblicato su L’Espresso il 17 gennaio 2021)


Aggiornamento del 30/01/2021

E ora cambiare le regole

Per il Corriere della Sera Massimo Gaggi ha intervistato Larry Irving, ex viceministro al Commercio degli Stati Uniti durante l’amministrazione Clinton. Irving è considerato l’architetto della legislazione su Internet varata in quegli anni, comprendente

“norme che concessero esenzioni fiscali alle nuove imprese digitali (a cominciare dall’e-commerce senza tasse), l’attenuazione dei vincoli antitrust e soprattutto l’irresponsabilità degli operatori per i contenuti messi su Internet […] in particolare il Telecom Act e il Decency Act (con l’ormai celebre Section 230).”

L’intervista si apre con una precisazione dello stesso Irving sulle dinamiche che guidarono il dibattito e la stesura delle norme: protagonista e guida del processo fu infatti non il Presidente Clinton, ma l’allora Vicepresidente Al Gore, creatore di un comitato di 18 esperti dalle diverse aree dell’amministrazione interessate dai provvedimenti. Interessante dal punto di vista semantico il termine che veniva utilizzato all’epoca per il piano, ovvero information superhighway: una vera e propria autostrada per agevolare lo sviluppo delle tecnologie digitali. Questo concetto trae le sue origini da un parallelismo infrastrutturale, a causa dello sviluppo – a partire dagli anni Ottanta – di reti di connessione in fibra ottica in grado di coprire le grandi distanze esistenti tra le principali città degli Stati Uniti. Esso, tuttavia, riflette anche l’impatto disruptive che una trasformazione di tali dimensioni può avere all’interno di un ecosistema esistente. Va segnalato d’altra parte quanto precisa Irving, ovvero che “in quei testi legislativi la parola internet non compare quasi mai”. Solo in un secondo momento, infatti, con l’esplosione del World Wide Web, Internet diventa un concetto intercambiabile con l’autostrada tecnologica con la quale Gore auspicava di connettere tutte le case e gli uffici d’America.

Alla domanda di Gaggi sul se Irving sentisse all’epoca la responsabilità di quelle decisioni, egli risponde:

“Allora in tutto il mondo c’erano su Internet 30 o 40 milioni di persone su una popolazione mondiale di sei miliardi. L’informazione passava attraverso televisione, radio e giornali, nessuno pensava a Internet. Sono stato varie volte in Italia per fare conferenze in Italia, ospite dell’ambasciatore Bartolomew. Internet non preoccupava Silvio Berlusconi, né la Rai. Al di fuori dell’etere esistevano solo le telecomunicazioni e Telecom Italia era onnipotente. Lo stesso avveniva in America con AT&T e con le altre. Noi capivamo che dall’elettronica, dalla rete, poteva nascere una nuova economia, potevano scaturire molti posti di lavoro. Dovevamo alimentare Internet, farla crescere. Evitare che i gruppi delle telecomunicazioni, che cominciavano a vedere la Rete come una minaccia di lungo termine alla loro prosperità, la uccidessero.”

Riconoscendo come corretta l’osservazione di Gaggi sul fatto che l’attuale pervasività di Internet sia andata ben oltre le intenzioni e le aspettative dell’epoca, Irving aggiunge che sarebbe stato necessario monitorare e regolare non solo l’informazione – una delle maggiori preoccupazioni del momento – ma anche l’intero mercato che si regge su questo status quo. Riconoscendo la buona direzione di alcune normative europee sulla tassazione dei siti di e-commerce, egli sottolinea che sul piano politico occorre intervenire per garantire la tenuta democratica, anche alla luce dei rischi che si sono palesati proprio con l’assedio del Campidoglio.

Con particolare riferimento al caso Trump, Irving commenta:

“Le imprese vanno di certo coinvolte nella protezione della comunità. Ma è impensabile che gruppi anche delle dimensioni di Facebook o Twitter possano gestire questo problema da soli. Molti la vedono in modo binario: niente regole o regole statali severe. Io credo che serva invece una normativa leggera che garantisca la massima libertà, ma senza mettere in pericolo la società. Vogliamo evitare istigazioni alla violenza e ai crimini d’odio, ma per farlo abbiamo bisogna di una robusta discussione pubblica su Internet. Va rivista la Section 230 e va rivitalizzata la competizione su Internet. È inammissibile che pochi miliardari non eletti abbiano il potere di sbattere fuori chiunque vogliano da tutte le principali piattaforme. E, comunque, quando intervieni su Trump devi essere coerente, intervenendo anche sulla comunicazione di dittatori che in giro per il mondo diffondono messaggi altrettanto se non più falsi e/o violenti. Trovo comunque incoraggiante che si cominci a discutere e ad agire. Due anni fa non accadeva: per questo siamo arrivati al punto attuale.”

L’intervista si chiude con una considerazione di assoluta rilevanza per la nostra analisi. Irving sottolinea che il rapporto tra leadership politiche e mezzi di comunicazione negli Stati Uniti è sempre stato forte ed è spesso risultato decisivo nel raggiungimento dei risultati elettorali:

“Senza Twitter [Trump] non avrebbe vinto nel 2016? Forse è vero, ma senza la radio Roosevelt non sarebbe divenuto presidente e senza televisione Kennedy non avrebbe conquistato la Casa Bianca. Sono abbastanza vecchio da ricordare la vittoria di JFK nel 1960. Si giocò tutto nell’ultimo dibattito trasmesso in tv: un giovane carismatico che parlava bene, che era a suo agio davanti alle telecamere e che affrontava un Nixon cupo e impacciato. Internet non ha creato Trump. Ha amplificato le sue visioni del mondo e anche alcune sue bugie”.

(Virgolettati da “Scrissi per Clinton le leggi di Internet ma 25 anni dopo sono inadeguate“, intervista di Massimo GaggiLarry Irving per il Corriere della Sera, 18 gennaio 2021)