Tutti gli animali del Presidente. Amici a quattro zampe: da Larry a Major
di Michela Marrocu
Il titolo ufficiale è quello di “Chief Mouser”, ossia “L’acchiappa topi in capo dell’ufficio di Gabinetto”. È noto però al mondo semplicemente come Larry the cat, il simpatico felino di Downing Street che lo scorso 15 febbraio ha festeggiato un decennio al servizio del Primo Ministro inglese. «In carica più a lungo del leader di un qualsiasi partito politico britannico»: La sua bio-Twitter parla chiaro. Elegante, pigro, spesso dispettoso, per non dire politicamente scorretto. Amichevole con Obama e altezzoso con Trump. Larry è arrivato a Downing Street nel lontano 2011 durante il mandato di David Cameron, attirando sin da subito l’attenzione della stampa e conferendo quel sense of humour anche alla residenza del titolare del potere esecutivo inglese. Da allora è a tutti gli effetti parte integrante dello staff, diventando protagonista di simpatici siparietti. Argomento di dibattito a Westminster con Cameron che ne mostrò una foto per smentire le voci di una presunta antipatia tra i due. Pigro e indifferente sostenitore di una Theresa May provata dai risultati del referendum sulla Brexit. E infine catalizzatore di flash con un semplice agguato al piccione durante l’attesa per la conferenza stampa di Boris Johnson.
La domanda è lecita, nonostante possa apparire un po’ ardua. Può un felino, o qualsivoglia animale domestico, aiutare il leader nell’ardua impresa di costruire e mantenere il consenso elettorale? Forse no, eppure i capi delle maggiori potenze mondiali amano farsi fotografare in compagnia dei propri amici a quattro zampe. Pet lovers o abili strateghi? Donald Trump, il primo Presidente americano in oltre un secolo a non avere ospitato neanche un animale nell’ala ovest della Casa bianca, interpellato al riguardo aveva chiarito così la questione: «Non mi dispiacerebbe averne uno onestamente, ma non ho tempo. Molte persone dicono: “Oh, dovresti prendere un cane”. Perché? “Politicamente va bene”». Chi non ricorda Socks? Il gatto bianco e nero di Bill Clinton, diventato il protagonista, insieme all’odiato collega canino del libro per bambini Dear Socks, Dear Buddy. Un’idea della First lady per raccogliere fondi da destinare ad opere di beneficenza. E ancora, chi non è stato conquistato dalle foto scattate da Pete Souza di Sunny e Bo, i due inseparabili cani d’Acqua Portoghesi di Barack Obama? Quanti tweet invece sono stati scritti per il regalo a quattro zampe che Daria Bignardi fece a Mario Monti? Il cane non gli portò fortuna, ma l’hashtag #chiamailcanedimonti divenne subito trend topic. “Operazione empy”, come empatia, quella che a detta dei commentatori mancava al suo padrone.
A torto o a ragione, la stampa nutre da sempre un amore particolare nei confronti di questi animali a quattro zampe, rei confessi di regalare ai propri padroni un calore e un’umanità che spesso manca a certi leader politici. Franklin Delano Roosevelt attribuì il merito della sua rielezione nel ’44 a Fala, il terrier scozzese nero di sua proprietà, con il quale prese in giro i suoi avversari repubblicani. Fala infatti era balzato agli onori della cronaca per una dimenticanza del padrone. Accidentalmente lasciato indietro durante una visita presidenziale nelle Isole Aleutine, Roosevelt aveva inviato un cacciatorpediniere della Marina (a spese dei contribuenti) per recuperarlo. Le critiche non si fecero attendere, ma grazie a un’idea del drammaturgo Orson Welles che occasionalmente curava la campagna elettorale del candidato democratico, Roosevelt rispose ironicamente. «Questi leader repubblicani non si sono accontenti di attaccare me, mia moglie o i miei figli. No, ora coinvolgono anche il mio cagnolino, Fala. Bene, di certo non sono infastidito dagli attacchi, ma Fala sì. Sapete la sua anima scozzese si è infuriata. Non è più lo stesso cane da allora». La cronaca del tempo parlò di un pubblico in visibilio. Due mesi dopo Roosevelt venne rieletto.
Otto anni più tardi la storia si ripetè. Stavolta però a salvare la carriera politica del padrone fu il cocker spaniel Checkers. Richard Nixon, allora in corsa per la vicepresidenza, era stato accusato di aver ricevuto doni illeciti per finanziare la sua campagna elettorale. A detta dell’allora senatore della California, niente di più falso. Nessun fondo segreto, nessuno scambio di favori. L’unico regalo mai accettato fu solo il suo fedele cagnolino. «I bambini, come tutti i bambini, lo adorano, e voglio dire solo questo. Indipendentemente da quello che dicono al riguardo, noi lo terremo». Il discorso del futuro Presidente passò alla storia come il Checkers speech, piccola opera comunicativa di manipolazione del consenso.
Pushinka fu invece protagonista di importanti relazioni diplomatiche. Discendente del primo cane ad aver viaggiato nello spazio, fu il regalo che Nikita Khrushchev inviò nel pieno della Guerra fredda a John Kennedy e alla sua famiglia. «Siamo stati particolarmente lieti di ricevere Pushinka. Il suo volo dall’Unione sovietica agli Stati Uniti non è stato così drammatico come il volo di sua madre». Scherzava così l’allora Presidente americano in una lettera datata il 21 giugno 1961 scritta per ringraziare il collega sovietico. E ci fu chi si mostrò pronto a giurare che l’epilogo della crisi missilistica di Cuba sia stato almeno in parte anche merito di Pushinka.
Il binomio animale e padrone, fido amico e capo politico funziona. Non sempre – vedi l’affettuoso Adolf Hitler con i suoi pastori tedeschi – ma nella stragrande maggioranza dei casi funziona. Strategia comunicativa vincente ascrivibile forse alle doti di soft power che un leader dovrebbe possedere.
In attesa di ulteriori smentite il neo eletto Presidente americano Joe Biden si è portato con sé i suoi due amati cani, Champ e Major. Quest’ultimo, un cane lupo meticcio salvato da un canile dopo essere stato esposto a sostanze chimiche, sarà uno dei primi (se non il primo) cani adottati ad avere l’onore di poter risiedere alla Casa Bianca.
Non è forse anche questo un messaggio politico?