Un Recovery Plan anche per la comunicazione istituzionale

di Dario Bovino

È sempre battaglia sul fronte comunicativo. Le aule parlamentari hanno fatto da sfondo negli ultimi giorni alle convulse interlocuzioni tra i partiti, il 46° Presidente degli Stati Uniti si è insediato in un clima mai visto prima, l’Unione Europea è in una fase di continua mediazione tra post Brexit, accordi commerciali con la Cina, Next Generation EU e misure di contrasto alla pandemia, mentre altri attori globali mettono in campo importanti strategie di riposizionamento geopolitico anche grazie a programmi di contro-narrazione.

Mentre la pandemia non lascia ancora chiaramente intravvedere una soluzione definitiva all’emergenza sanitaria, economica e sociale, leader e istituzioni sono chiamati ad un incessante agire comunicativo. Certamente non una novità, ma sono cambiate dimensioni e caratteristiche, soprattutto per la potenza e la pervasività dei social network.

La platform e la hybrid society presentano un punto di non ritorno in ordine a tante discussioni “carsiche” aperte da diversi anni su potere e gestione dei contenuti presenti sulle piattaforme social, nonché sul ruolo dei loro proprietari. Ha fatto discutere l’oscuramento dei profili ufficiali Twitter e Facebook del Presidente degli Stati Uniti e l’espulsione di Donald Trump dai social. Nel clamore dell’avvicendamento del “POTUS”, sono seguiti a stretto giro il blocco dell’account Twitter dell’ambasciata cinese negli USA e il contrasto tra Google e il Governo australiano per la gestione delle informazioni sulla Rete. Tante discussioni, interessi economici, riflessioni sulla opportunità/capacità di attribuire patenti di democraticità per essere ammessi nell’arena digitale, che porteranno -dai primi atti legislativi nati negli USA sul finire degli anni 90 ad oggi- ad una rimodulazione del sistema regolatorio della Rete. L’Unione Europea potrà giocare, a similitudine del GDPR, un ruolo importante.

Il Covid-19, da intendersi quale “fatto sociale totale”, sta offrendo l’opportunità di innovare in molti settori nei quali inevitabilmente si assisterà al nascere e al consolidarsi di fratture di vario genere. Oltre alla drammatica emergenza sanitaria, il virus ha portato prepotentemente alla ribalta il tema del disordine informativo. Si è tornato a parlare di infodemia (Rothkopf), termine coniato all’epoca della diffusione della SARS agli inizi degli anni 2000.

La diffusione delle “fake news” e il tema della disinformazione dagli effetti nefasti, plasticamente raffigurabili nelle vicende determinanti la parabola di The Donald da imprenditore a “Commander in Chief”, hanno influenzato le vicende politico-istituzionali americane, sin dalla campagna elettorale del 2016. Si deve, dunque, pensare a come “voltare pagina”.

Il discorso di Joe Biden, totalmente a braccio, ha colpito per alcuni elementi che hanno una certa rilevanza sotto il profilo semantico e prossemico: la postura, il ritmo, il tono di voce. Elementi che suscitano empatia immediata. Un modello di riferimento quanto a capacità di engagement è certamente rappresentato da Papa Francesco. Il Santo Padre ha sempre riservato grandissima attenzione alla comunicazione tanto da aver optato fin da subito per una radicale trasformazione di questo settore in Vaticano. In occasione della 55^ giornata mondiale delle comunicazioni sociali (“Vieni e Vedi. Comunicare incontrando le persone dove e come sono”), ha ribadito ancora una volta la necessità e l’urgenza di una comunicazione dal carattere “umano”, che vada cioè a caccia della verità, che utilizzi le straordinarie potenzialità dei social per offrire un autentico servizio e non per disseminare “chiacchiericcio” (come egli stesso definisce la “disinformazione”) o per incoraggiare l’informazione omologante che genera prodotti “tutti uguali”. Un’occasione utile altresì per declinare con cristallina semplicità principi e regole fondanti della scienza della comunicazione. Egli scrive: “non si comunica, infatti, solo con le parole, ma con gli occhi, con il tono della voce, con i gesti e persino con i silenzi”.

Il coronavirus, che a un anno dalla “scoperta” continua ad influenzare i palinsesti di tutti i media mondiali e a condizionare pesantemente i processi di formazione dell’informazione e dell’agenda setting, rappresenta una grande opportunità anche per una profonda riflessione sul tema della comunicazione. A partire da quella istituzionale, che si differenzia da quella politica. Istituzioni come “persone”, ma soprattutto come organizzazioni, pubbliche o private, costituite per perseguire finalità specifiche e per produrre “valore sociale”. A tal proposito, è utile ricordare quanto sostenuto dal presidente Mattarella che nel messaggio di fine anno, tra i più seguiti di tutti i tempi, ha pronunciato tra le altre quelle di seguito riportate: “Cambiamo ciò che va cambiato, rimettendoci coraggiosamente in gioco”. Chiunque può trovare in questa semplice ma potente affermazione la forza per ripartire, può fare un re-boot del sistema e contribuire a costruire la società post-covid. Si può iniziare anche con piccole azioni, ma dai contenuti profondi.

Tra parametri per l’assegnazione dei colori alle Regioni, stop forzati, misure anti-contagio, potrebbe essere utile anche sistematizzare i processi comunicativi, mettere in atto coraggiose revisioni di modelli sino a questo momento solo teorizzati ma mai realmente implementati, proprio per l’impossibilità di governare fino in fondo la quotidianità.

Sarebbe opportuno immaginare una sorta di Recovery Plan anche per la comunicazione istituzionale e non solo per attingere ai fondi stanziati dall’Unione Europea. Se supportato da validi e concreti interventi, magari anche con un po’ di fantasia nel ricongiungere le esigenze più cogenti all’ambito della digitalizzazione della PA piuttosto che alla filiera “green”, si può aspirare a realizzare vere innovazioni, ovvero a radicali cambiamenti dei processi più rilevanti. Il presupposto indispensabile, però, è che chiunque si occupi di comunicazione istituzionale sia in possesso di specifiche e qualificate competenze. Non è più il tempo di gestire una materia così delicata, considerata alla stregua di un’arma fin dai tempi dell’antica Grecia, con superficialità. Solo con buone tecnicalità costruite sul campo, solo attraverso una piena consapevolezza degli effetti che si determinano con l’uso delle piattaforme digitali si può invertire la tendenza. La cultura della comunicazione istituzionale non può essere appannaggio solo dei tecnici impegnati nei singoli enti. Deve coinvolgere tutta la filiera: dagli emittenti ai riceventi. Occorre uscire dalle logiche della polarizzazione, della spettacolarizzazione dell’informazione, dell’omologazione, del “purché se ne parli”, ponendosi finalmente il problema delle conseguenze dell’agire comunicativo.

La comunicazione istituzionale deve poter contare su adeguate strutture e professionalità e perché no riscoprire quelle “semplici” ma fondanti regole che sono alla sua origine: chiarezza, semplicità, trasparenza, verifica delle fonti, aggiornamento, uso misurato degli strumenti e ascolto dei propri utenti. Nel mondo della complessità, dell’infosfera e delle relazioni che a livello ontologico rimodellano la società (Floridi), nella società della iper-produzione informativa, cerare di fare chiarezza, di spiegare ai cittadini fenomeni e materie non alla portata di tutti dovrebbe essere il primo obiettivo da perseguire. Quanti conoscono effettivamente la differenza o la correlazione esistente tra Recovery Fund e Next Generation EU? Quali effetti e conseguenze producono? Quanto una corretta comunicazione scientifica alla portata del grande pubblico potrebbe contribuire a fare debunking circa la pericolosa disinformazione che su di essi si è sviluppata?

Una buona comunicazione istituzionale, da declinare sul piano strategico con particolare attenzione alla dimensione interna e puntando a grandi investimenti sul capitale umano, può essere un potente elemento di resilienza nel medio-lungo periodo. E ciò specie in ordine alla possibilità che essa ha di facilitare il consolidamento del rapporto di fiducia tra “cittadinanza” e “governance”. E’ una grande responsabilità poiché sul tema della fiducia tra cittadini ed istituzioni si gioca gran parte della partita dell’essenza della democrazia di un Paese.