Vaccino “bene comune universale”? Un’analisi geopolitica

di Arnaud Leconte

Il dibattito sul vaccino anti Covid-19 e sull’obiettivo di renderlo un “bene comune universale” dovrebbe essere contestualizzato all’interno di una più ampia prospettiva geopolitica. Infatti se il vaccino fatica a diventare un bene comune globale lo si deve soprattutto all’attuale confusione geopolitica e al prevalere di strategie internazionali non cooperative. Il vaccino dovrebbe diventare un bene comune universale secondo tutte quelle persone che leggono l’attuale pandemia come un assaggio delle crisi future, per esempio quelle che saranno dovute alle emergenze del clima o della biodiversità. Anche se la diffusione pandemica di un virus è per definizione globale, stiamo vedendo quanto tempo può essere richiesto per accordarsi su una soluzione altrettanto globale. Una governance globale è difficile da raggiungere innanzitutto in ragione di profonde tensioni geopolitiche. È dal punto di vista geopolitico che il vaccino diventa, per esempio, uno strumento per esercitare il potere: Paesi come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia hanno tentato di influenzare gli altri attraverso i propri vaccini. Questi Stati sperano di utilizzare il vaccino (più precisamente: il loro vaccino, prodotto nei propri confini) per ampliare e delimitare una sfera di influenza a spese delle sfere di influenza altrui. Un modo di ragionare simile non può che remare contro l’idea di una vaccino da intendersi come bene comune universale.

Ogni atteggiamento cooperativo in tema di vaccini sarebbe comunque destinato al fallimento? La storia in realtà sembra dire altrimenti. La Costituzione della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) fu firmata e adottata nel 1946 da 61 Stati e entrò in vigore nel 1948 per costituire un modello di cooperazione teso a tutelare la salute universale. Tale approccio ebbe un certo successo durante la Guerra Fredda: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, per esempio, combatterono congiuntamente contro il virus del vaiolo. La cooperazione sul tema fu avviata all’inizio degli anni Cinquanta, continuò anche nei periodi più tesi come quello della Crisi dei missili di Cuba nel 1962, al punto che la comunità internazionale riuscì a eradicare il vaiolo entro il 1980. La Conferenza internazionale sull’Assistenza sanitaria primaria che si tenne nel settembre 1978 ad Alma-Ata, in Unione Sovietica, sancì una tale attitudine alla cooperazione. Nella dichiarazione finale si leggeva per esempio che “un accettabile livello di salute per tutte le persone del mondo può essere raggiunto entro l’anno 2000 grazie a un migliore e più completo uso delle risorse del pianeta”. Al tempo, insomma, l’OMS non difettava di grandi ambizioni e di comportamenti cooperativi. Le cose sono iniziate a cambiare negli anni Ottanta: l’OMS non è più stata considerata neutrale e super partes dai suoi Stati membri; l’organizzazione internazionale divenne l’arena di dispute geopolitiche (Nord vs. Sud) e di rappresaglie finanziarie (alcuni Stati decisero di ridurre la loro quota di finanziamento).

 

Differenze nella risposta globale a SARS e Covid-19

Comunque sia, anche una OMS indebolita – in termini di potere finanziario e politico – ha giocato un ruolo in qualche modo positivo nell’affrontare minacce sanitarie in tempi recenti come l’epidemia di SARS (Severe acute respiratory syndrome) e quella di Ebola. Ecco una ragione in più per dubitare di quanti fanno riferimento all’attuale pandemia come a un “cigno nero”, minimizzando implicitamente gli errori compiuti a livello di policy e cooperazione globale. Come è stato scritto di recente da un panel di esperti indipendenti riunito dalla stessa OMS, “anche se gli addetti ai lavori del mondo sanitario, gli esperti di malattie infettive, le commissioni e i rapporti internazionali degli scorsi mesi e anni avevano messo in guardia da potenziali pandemie e avevano sollecitato un piano robusto di preparazione dopo i primi focolai di SARS, il Covid-19 ha colto di sorpresa gran parte del pianeta”.

Cosa accadde in occasione dell’epidemia di SARS nel 2003? Un medico militare cinese fece sapere all’opinione pubblica che il suo ospedale era pieno di persone affette da una strana polmonite, contraddicendo pubblicamente la versione offerta dal Partito Comunista Cinese. Nei giorni immediatamente successivi, l’OMS – diretta allora da Gro Harlem Brundtland, ex Premier norvegese che aveva guidato la stesura del famoso Rapporto Bruntland del 1987 sullo sviluppo sostenibile – dichiarò che i dati ufficiali cinesi sul nuovo focolaio virale erano inattendibili. In questo modo Pechino fu spinta di fatto a un repulisti interno, fino al punto di licenziare alcuni dei responsabili del tentato insabbiamento.

Cosa è successo invece negli ultimi mesi, dopo lo scoppio della pandemia da Covid-19? Stavolta i whistleblower cinesi, come il medico Li Wenliang che condivise per primo su WeChat alcune informazioni su casi sospetti di Covid-19, sono stati accusati dalle autorità locali e silenziati rapidamente. Anche i whistleblower di Taiwan, che avevano inviato avvertimenti tempestivi negli ultimi giorni del 2019, furono fondamentalmente ignorati dall’OMS per alcuni lunghi giorni che poi si sono rivelati decisivi. La leadership dell’OMS, nelle prime settimane del 2020, ha scelto di adeguarsi alla versione ufficiale cinese su quanto stava accadendo, per esempio sul tema della trasmissibilità umana del virus, e ciò ha avuto conseguenze gigantesche nel far sì che il virus potesse diffondersi nel mondo. Anche se l’organizzazione internazionale era la stessa del 2003, la risposta alla diffusione del virus è stata completamente diversa. Da una parte c’è stato un problema di leadership e di governance, dall’altra un problema geopolitico. Ciò che è accaduto lo scorso anno – con l’OMS in qualche modo delegittimata per l’eccessiva influenza cinese – fa capire che le organizzazioni internazionali devono essere riformate per dare priorità a leadership forti e indipendenti, come lo fu quella di Gro Harlem Brundtland nel 2003, un aspetto fondamentale per la gestione delle crisi.

Inoltre politicizzazione e mediatizzazione estreme degli interessi geopolitici in campo hanno giocato un ruolo nel plasmare la risposta alla pandemia. Oggi Stati Uniti e Cina non hanno soltanto agende politiche divergenti, come fu per Stati Uniti e Unione sovietica durante la Guerra Fredda; la Cina sta modificando la sua strategia di sviluppo, visto che Pechino non intende più essere semplicemente “una macchina da esportazioni”, e vuole esercitare il potere politico che è consono a tale nuovo ruolo. Finora abbiamo assistito a una competizione soprattutto economica tra Stati Uniti e Cina; tale competizione, a causa della pandemia e della risposta che ne è seguita, è diventata sempre più politica. Eventualmente potrebbe trasformarsi in una competizione militare. La Guerra Fredda, invece, seguì il percorso opposto: iniziò come una forma di rivalità militare, divenne una competizione politica e terminò su un piano economico, col Presidente americano Ronald Reagan che riteneva l’economia sovietica così debole da poter essere condotta sull’orlo del fallimento da un’accresciuta pressione concorrenziale. In un contesto altamente politicizzato come quello attuale, le parole del Presidente americano Donald Trump e i dubbi espressi sul “virus di Wuhan” sono stati accantonati con troppa superficialità e strumentalizzati politicamente, dopodiché abbiamo dovuto attendere mesi per avviare una discussione franca sui temi della sicurezza, della trasparenza e della governance in Cina. Allo stesso tempo, se l’accesso ai dati cinesi è stato quasi impossibile, anche per i rappresentanti dell’OMS, oggi l’accesso ai vaccini degli Stati Uniti è fuori dalla portata di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo a causa dei divieti di esportazione a stelle e strisce. In sintesi, la crisi sanitaria ed economica che stiamo attraversando è stata dovuta più a una governance debole e a tensioni geopolitiche inusitate che non alla eccezionalità epidemiologica del Covid-19.

 

Incertezze e fragilità nella strategia dell’Unione europea

Come giudicare l’operato dell’Unione europea nell’attuale competizione geopolitica attorno al vaccino? Già nella primavera del 2020 divenne evidente che elaborare una strategia vaccinale concreta sarebbe stato cruciale. Gli Stati Uniti e il Regno Unito si posero alla testa dello sforzo di ricerca e sviluppo contro il Covid-19, anche sostenendo imprese straniere che potessero arrivare a un vaccino. I regolatori americani e inglesi avviarono una competizione virtuosa per velocizzare le fasi di test di vaccini e medicinali, senza compromettere la sicurezza. Nell’Unione europea, i Paesi della cosiddetta “Inclusive Vaccine Alliance” (Germania, Francia, Italia e Olanda) avviarono i negoziati con Astrazeneca che in qualche modo era considerata la più “europea” delle aziende: una multinazionale farmaceutica anglo-svedese, con un CEO francese e stabilimenti produttivi sul territorio europeo. Tuttavia la “Inclusive Vaccine Alliance”, fin dall’inizio, arrancava rispetto a Stati Uniti e Regno Unito nel processo negoziale. Oltre a ciò, dopo alcune discussioni tra gli Stati membri, l’Alleanza chiese alla Commissione europea di assumere su di sé l’onere dei negoziati e di firmare un’intesa a nome di tutti gli Stati membri, perdendo però tempo ulteriore in cerca di una strategia vaccinale che mettesse d’accordo tutti.

Tuttavia, in quella fase, si poteva sostenere che l’Unione europea era stata la prima a porre il problema del vaccino anti Covid-19 come “bene comune universale”. Infatti la Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, il 17 giugno del 2020 si espresse così: “E’ arrivato il momento di combinare scienza e solidarietà. (…) Lavorare assieme aumenterà le nostre chance di essere in grado di fornire l’accesso a un vaccino sicuro ed efficace, nelle quantità richieste e nel più breve tempo possibile. Grazie a questa collaborazione, un vaccino sarà accessibile con modalità giuste ed eque per tutti nell’Unione europea e nel mondo”. Ma anche questa primazia teorica è stata abilmente scavalcata dagli Stati Uniti: infatti il mondo intero ha dimenticato le parole della Von der Leyen e sta oggi discutendo il sostegno espresso dal Presidente americano Joe Biden all’idea di revocare temporaneamente i brevetti sui vaccini anti Covid-19 in sede di Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).

L’Unione europea ha visto ulteriormente compromesse le sue chance di assumere un ruolo guida grazie al proprio soft power quando ha deciso di non attivare la “licenza obbligatoria” a livello di WTO, come richiesto invece da India e Sud Africa (con la “licenza obbligatoria”, come spiega la stessa WTO, è tale per cui uno Stato consente a qualcuno di produrre un bene o replicare un processo protetto da brevetto senza attendere il consenso del possessore del brevetto. È uno dei meccanismi di flessibilità inclusi nell’Accordo TRIPS (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale). L’Unione europea, invece, ha sostenuto il meccanismo COVAX, puntando a distribuire 2 miliardi di dosi di vaccino in maniera gratuita. Così Bruxelles ha scelto un sistema tendenzialmente monopolistico, allineato agli interessi delle società farmaceutiche.

Era l’unica risposta possibile? Niente affatto. Proteggere le vite umane, non il profitto, dovrebbe essere la priorità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e sospendere le regole sui brevetti non può essere considerato necessariamente come un pericolo per l’innovazione e la salute. Immaginiamo infatti un mondo in cui una rete globale di professionisti medici monitori costantemente l’eventuale apparizione di nuovi varianti di virus contagiosi, aggiornando periodicamente una formula in qualche modo stabilita per possibili vaccini, rendendo queste informazioni accessibili alle aziende e ai Paesi di tutto il mondo senza tenere conto di regole legate alla proprietà intellettuale. Potrebbe suonare come una fantasia utopica, ma è esattamente la descrizione di come il vaccino anti-influenzale è stato prodotto negli ultimi 50 anni. Attraverso il Sistema globale di sorveglianza e risposta dell’influenza (GISRS) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, gli esperti di tutto il mondo si riuniscono due volte all’anno per analizzare e discutere gli ultimi dati sulle varianti emergenti del virus influenzale, per decidere quali di queste debbano essere prese in considerazione dai vaccini. Il sistema GISRS, composto di una rete di laboratori presenti in 110 Paesi, finanziati quasi completamente dagli Stati (e in parte da fondazioni), incarna il concetto di “open science” (o “scienza aperta).

Di recente, in un mondo che abbiamo descritto come percorso da atteggiamenti spesso non cooperativi, il Presidente degli Stati Uniti Biden ha espresso il suo sostegno all’ipotesi di sospendere l’efficacia delle regole sulla proprietà intellettuale per espandere la distribuzione dei vaccini, così da tornare al centro di una nouvelle vague multilateralista, un po’ come già accaduto con la convocazione di una conferenza sul clima. Allo stesso tempo egli vuole dimostrare leadership politica nel tentativo di contenere il soft power della Cina, mostrando pure quell’empatia che sembra essere uno dei capisaldi della sua personale filosofia politica.

Evidentemente sotto pressione, allora, l’Unione europea ha da poco proposto un piano per aumentare produzione e disponibilità di vaccini, da presentare in sede di WTO a inizio giugno, che possa essere più efficace della sospensione dei brevetti. Il piano tra l’altro potrebbe essere attuato più rapidamente di una revoca dei brevetti che richiederebbe un cambiamento delle regole WTO. Presentato dal Commissario europeo Valdis Dombrovskis, il piano si compone di tre elementi: facilitazione della commercializzazione e disciplina delle restrizioni all’export (oggi la metà dei vaccini prodotti nei Paesi Ue sono esportati); rafforzamento della produzione, attraverso impegni dei produttori e degli sviluppatori; chiarimento e incentivazione dei meccanismi di flessibilità già oggi previsti dall’Accordo TRIPS (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale) rispetto ai brevetti obbligatori. Stavolta l’Unione europea sarà in grado di fare la differenza in un mondo percorso da forti tensioni geopolitiche?