Visione riformista e scelta delle priorità nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
di Luciano Monti
191 miliardi di euro di Dispositivo di Ripresa e Resilienza per l’impiego delle risorse europee (di cui 122,6 a titolo di finanziamento), 30,4 miliardi del Fondo Nazionale aggiuntivo sostenuto da risorse pubbliche nazionali e infine il React Eu, con 13 miliardi di sussidi europei. Questo il Pacchetto del “Recovery Plan” targato Draghi in votazione al Parlamento prima del suo invio a Bruxelles.
Verrebbe spontaneo provare subito a comparare questo nuovo piano con la bozza varata il 12 gennaio scorso dal precedente governo, ma si tratterebbe di un esercizio poco costruttivo, perché quest’ultimo documento rimarrà semplicemente tra gli atti parlamentari, mentre il secondo, se approvato dal Consiglio europeo, costituirà la base del piano di ripresa e resilienza del nostro paese per il prossimo lustro e oltre.
Ebbene, una prima valutazione del suddetto PNRR, ora alle camere, può essere condotta su diversi piani: quello tecnico, quello economico e quello politico.
Sotto il profilo tecnico appare evidente, già da una prima lettura, come il piano sia strutturato in piena osservanza delle linee guida emanate dalla Commissione europea e nel quadro del perimetro delineato dal regolamento UE 241/2021 e dei suoi allegati. Certo, le missioni non sono allineate con i pilastri enunciati da Bruxelles, ma certamente questa distonia potrebbe essere risolta fornendo una tabella di raccordo.
Sotto il profilo economico, il documento offre una serie di tabelle di impatto stimato del Piano in tutte le sue componenti. Impatto valutato prevalentemente in termini di incremento marginale del PIL negli anni a venire sino al 2026. I modelli che sottendono a queste stime non sono allo stato noti e dunque una valutazione “alternativa” a quella presente non è allo stato possibile. Forse una obiezione “a caldo” potrebbe essere quella che legare tutto al PIL può essere riduttivo, soprattutto se l’obiettivo dell’intero piano è quello dello sviluppo sostenibile e l’accompagnamento alla duplice transizione ecologica e digitale. Molti sono gli indicatori proposti nel piano ma come questi concorrano a definire l’impatto complessivo, non è chiaro.
Assai più interessante è invece la valutazione politica del Piano. Gli ambiti di indagine in questo senso possono essere almeno tre: le scelte di governance, la visione riformista e la scelta delle priorità.
Sul primo tema il PNRR di Draghi effettua una scelta chiara e precisa, affidando al Ministero dell’Economia e delle Finanze il ruolo di gestore dell’intero piano e coordinatore degli altri Ministeri coinvolti nell’attuazione delle missioni o componenti del piano e una Cabina di Regia, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, con il compito di verificare l’avanzamento del Piano e i progressi compiuti nella sua attuazione. Una scelta questa che potrebbe essere la chiave del successo se non si cede alla solita tentazione, di far proliferare dagli interventi programmati migliaia, se non centinaia di migliaia di progetti (nella sola programmazione 2014-2020 risultano attualmente in gestione oltre 710.000 progetti finanziati, una vera “pioggia”).
In merito alla visione riformista, al Piano va il merito di aver inserito, tra le riforme chiave per la ripresa del nostro paese, quella della Giustizia e quella della PA, (l’ennesima e si spera risolutiva) riforma di semplificazione normativa e amministrativa, la semplificazione in materia di appalti pubblici e la riforma fiscale. Spicca l’assenza di una riforma delle procedure fallimentari, che sarebbe fondamentale per accompagnare l’inevitabile fuoriuscita delle aziende nei settori più duramente colpiti dalla pandemia.
Circa la valutazione sulle priorità del piano, tema questo principe sotto il profilo politico, non si sono dubbi sul fatto che alcune scelte fatte siano figlie della strategia delineata dall’Unione europea. Il riferimento va alle priorità legate alla transizione ecologica e digitale, per le quali il regolamento europeo citato predetermina il livello minimo di risorse da destinare. Lo stesso vale per la “territorializzazione delle risorse”, ispirate allo spirito europeo della coesione, che ha condotto a concentrare a Sud un numero cospicuo di risorse, ben modulate nelle varie componenti.
Quando invece il governo ha dovuto procedere “in autonomia”, ha finito per perdersi in dichiarazioni spesso vaghe e talvolta poco realizzabili. Ancora vaghi sono i riferimenti alle priorità orizzontali per giovani e donne, con valutazioni di impatto prospettiche affidate a mere dichiarazioni d’intenti o a stime e proiezioni al 2026. Poche, anzi pochissimi gli interventi esclusivamente rivolti a questo target (i principali sono le borse di studio per l’accesso all’università e il servizio civile universale per i primi, imprenditorialità femminile per le seconde), con il bonus per la casa affidato al DEF e non incluso nel PNRR.
Nulla per l’autoimpiego e l’imprenditorialità giovanile, che, soprattutto alla luce della citata duplice transizione, potrebbero e dovrebbero essere le modalità prevalenti per l’entrata nel futuro mondo del lavoro. Infine, tutta va verificare l’ipotesi di favorire i giovani prevedendo vincoli alle imprese aggiudicatarie di appalti finanziati da risorse del PNRR. Misura questa non solo di difficile attuazione e controllo, ma con numerose criticità in relazione alle norme sulla concorrenza.
In conclusione, se la previsione dell’impatto delle singole componenti sul PIL nazionale può certamente corroborare la valutazione economica, quella politica dovrebbe poter contare, quantomeno per le priorità orizzontali sopra richiamate, su un set di indicatori multidimensionale, come ci indica Agenda 2030, alla quale il documento dichiara di volersi ispirare.
Articolo pubblicato su Luiss Open, il 28 aprile 2021