What is happening in Myanmar? Quando la cronaca diventa spontanea

di Michela Marrocu

Il primo febbraio del 2021 a Naypyitaw, capitale del Myanmar, l’insegnante di aerobica Khing Hnin Wai trasmetteva in live streaming su Facebook la sua lezione. Dietro di lei però andava in scena un altro film: un convoglio dell’esercito, comandato dal generale Min Aung Hlaing, si dirigeva infatti verso il Parlamento per circondarlo.

Il video inevitabilmente diventava virale: 630 mila visualizzazioni su Facebook in poche ore, migliaia di condivisioni su tutte le piattaforme social, un tweet contenente la clip addirittura visto da più di 11,7 milioni di volte appena ventiquattro ore dopo la sua pubblicazione. Il balletto di una ragazza diventava in questo modo e in breve tempo una delle testimonianze più surreali di un colpo di stato.

Il giorno dopo il golpe, il regime militare prese il controllo di tutti i canali ufficiali d’informazione e comunicazione, ordinando al provider internet MPT (di co-proprietà dello Stato) di bloccare immediatamente l’accesso a Facebook nel tentativo così di arginare le proteste. Il piano era semplice quanto diabolico: dichiarare un anno di stato d’emergenza, tagliare i fili delle linee telefoniche nella capitale e nella città di Yangon, interrompere momentaneamente le trasmissioni della tv statale. Nonostante i ripetuti blackout nelle comunicazioni, i social media in due mesi hanno fornito un accesso prezioso alle azioni dei manifestanti sia militari sia anti-golpe con un sorprendente archivio Internet che documentava tanto le atrocità quanto gli atti di protesta.

Fare cronaca non è mai stato così facile.

“What’s happening in Myanmar?” si chiedono i social. Cosa succede in Myanmar? Istantanee di corpi dilaniati, video scioccanti dell’esercito armato che reprime nel sangue i disordini, droni che volano sulle teste di decine di manifestanti imprigionati in un monastero. Ecco cosa succede. Dopo aver rovesciato il legittimo governo birmano, accusato di frode elettorale durante le elezioni dello scorso novembre, quando la Lega Nazione per la Democrazia aveva ottenuto una vittoria schiacciante con l’83 per cento dei voti, i militari hanno arrestato Aung San Suu Kyi, leader governativa. L’accusa? Possesso illegale di due walkie-talkie. E nonostante nei suoi cinque anni all’Esecutivo, il primo democratico per il Myanmar, Suu Kyi abbia deluso buona parte delle aspettative che il popolo riponeva in lei (il processo di democratizzazione non ha conosciuto molti avanzamenti, la stampa non è diventata più libera – dietro le sbarre sono finiti giornalisti rei di aver mosso critiche all’Esercito o di aver raccontato i conflitti etnici), i birmani stanno facendo di tutto per riavere indietro la propria leader.

In risposta a questa dilagante disobbedienza civile, i militari continuano con il loro piano, decidendo di interrompere parzialmente le comunicazioni con il mondo esterno: l’accesso a Internet è stato bloccato durante le ore notturne. E dopo il blackout (seppur temporaneo) su Facebook, il regime è riuscito in poco tempo a redigere ben 36 pagine di una nuova legge sulla sicurezza informatica che conferirebbe all’Esercito poteri di censura senza precedenti, violando la privacy dei cittadini e contravvenendo a tutte le norme democratiche e ai diritti fondamentali. Un disegno di legge che ha messo in allarme gli stessi giganti di Internet. “Ciò minerebbe in modo significativo la libertà di espressione, oltre a rappresentare un passo indietro dopo anni di progressi” ha sostenuto in una nota l’Asia Internet Coalition, i cui membri includono Apple, Google, Amazon e Facebook.

Gli stessi manifestanti birmani si sono tempestivamente attivati. Una petizione online ha sollecitato Telenor, società norvegese di telecomunicazioni che lavora in Myanmar e che aveva rispettato l’ordine di sospendere le attività, a respingere la proposta di legge. Telenor alla fine lo ha fatto.

Facebook ha invece rimosso tutti gli account collegati ai militari, bloccandone l’uso non solo sulla sua piattaforma, ma anche su Instagram e limitando in questo modo uno dei principali mezzi di comunicazione dell’Esercito birmano.

Proprio quando Facebook era bloccato, quando l’Esercito arrestava decine di giornalisti colpevoli di diffondere notizie false istigando l’opinione pubblica contro il  Governo, proprio allora la resistenza birmana si organizzava e così millennials e generazione Z prendevano in mano la situazione. Facebook è fuori uso? Si passa a Twitter. L’Esercito traccia i loro indirizzi Ip? Si mettono in campo i VPN, le reti virtuali private che limitano appunto la possibilità di tracciare l’attività di un utente sul web. Per comunicare il “dove” e il “quando” delle loro proteste essi si sono rivolti a tecnologie più vecchie come i telefoni fissi e in nome di una maggiore privacy sono migrati su piattaforme che utilizzano una crittografia end-to-end come WhatsApp. Hanno cercato di decentralizzare le comunicazioni creando reti locali con l’utilizzo di App di messaggistica bluetooth che funzionano nelle brevi distanze, così da evitare la trasmissione tramite torre cellulare. Alcuni di loro hanno chiesto la liberazione di Aung San Suu Kyi, altri direttamente la revoca della Costituzione del 2008 con la quale si sancisce il potere dell’Esercito. A volte hanno fatto rumore con le padelle, altre hanno tentato di conquistare la polizia che sorveglia le strade, regalando loro una rosa rossa e intonando pyithu ye “la nostra polizia”. Sono i giovani attivisti, coloro che cercano di raccontare lo spaccato del proprio Paese con coraggio e soprattutto con ingegno.

Nonostante la creatività di questa nuova generazione, l’escalation di violenza non si è fermata e anzi è cresciuta insieme al desiderio dei militari di limitare il più possibile il flusso di informazioni da e verso i cittadini del Paese.

Se la proposta sulla sicurezza informatica dovesse diventare legge, l’uso dei VPN sarà illegale. Le foto, i video, i tweet che hanno informato il mondo esterno si potrebbero interrompere facendo calare il silenzio sulla situazione birmana. Un blocco permanente e completo dell’accesso a Internet provocherebbe danni inimmaginabili alla stessa economia del Paese. “Un blackout di notizie e informazioni da parte dei leader del golpe non può nascondere i loro arresti e abusi” ha dichiarato Brad Adams, direttore per l’Asia di Human Rights Watch. “I militari dovrebbero rilasciare immediatamente i prigionieri, ripristinare l’accesso alle informazioni online e proteggere il diritto alla libertà di espressione”.

L’esercito non è sembrato intenzionato a far dietrofront, tanto da destare le preoccupazioni dello stesso ambasciatore Kyaw Moe Tun che davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha invitato la comunità internazionale ad attivarsi per ripristinare il Governo democraticamente eletto del Myanmar. Subito dopo ha salutato i presenti con tre dita alzate. Indice, medio e anulare, il saluto cooptato dalla famosa saga di Hunger Games e diventato nei film, come in Birmania, il simbolo della resistenza contro le forze militari. Kyaw Moe Tun è stato prontamente licenziato dal regime.

Fare cronaca non è mai stato così difficile.